domenica 19 aprile 2020

FRANZ KAFKA - "IL CACCIATORE GRACCO" : una chiave di lettura


L'estate scorsa, ricordo che era una mattina di giugno, mi inoltrai nel bosco col cane. Era ancora fresco e camminare era un piacere. Non pensavo a nulla di particolare … sarei arrivato dopo circa tre chilometri, al solito bar, mi sarei seduto ad un tavolo esterno condividendo la brioche con Philly (cane), e incantandomi come un bambino ad osservare le navi che entravano nel porto, spesso talmente grandi da mettere in ombra tutto il paesino. Mi godevo la sensazione puramente psicologica, per nulla reale, di fresco che questi giganti del mare lasciavano al loro passaggio. La nave container che giungeva da Catania … chissà se era la sua mattina … ed ecco che nella mente fa irruzione la soluzione … Ecco "il cacciatore Gracco" compreso!!! Il primo pensiero fu per Sebald che, come me, dedicò anni per comprendere. Il libro "Vertigini" racconta di questo sforzo in cui si concentrò su un aspetto biografico che assillava Kafka: il matrimonio ... ma più del matrimonio un altro livello dell'esistere era ormai consapevolmente ed irrimediabilmente suo.... 
Quella mia comprensione fu un evento così inaspettato che rimasi sbalordito. Camminai silenzioso e intimorito, meditando e rimeditando quel che dal mio emisfero destro era uscito. 
Kafka era malato. Ormai sapeva che per lui non ci sarebbe stato scampo. Se si è malati terminali, si sa che è finita e si può anche prevedere con buona precisione, per quanto tempo si sarà ancora nel mondo dei vivi. Ma … e questo pensiero la mia mente mi donò quella mattina … se si è malati in modo irrimediabile, si è sì vivi, ma non si è più nel mondo dei vivi come gli altri. Si è sulla barca della morte ma ancora fra i vivi. Ecco tutto, ecco il significato che mi era sempre sfuggito. Quel racconto lo lessi la prima volta che avevo quindici anni. Mi sorprese la scrittura assai semplice; questo aspetto sempre sconcerta il lettore inesperto. Dietro alle "cose" semplici sembra che non ci sia nulla di più di quel che vedi … o leggi … ma ero già appassionato di Borges e ricordo e ricordavo queste sue parole a memoria. "Scrivere in modo semplice è una meta. La semplicità della grande letteratura contiene in sé una segreta complessità" … e Kafka è sempre semplice in modo disarmante. Si può aggiungere un aspetto che complica il suo specifico tipo di semplicità. Nella sua opera, ogni parola, ogni aggettivo, tutto, è calibrato con precisione. Nulla, assolutamente nulla, è li per caso. Tutto è in funzione del significato. Se si pensa che un racconto così concepito sia più semplice da comprendere o anche solo da leggere, ci si sbaglia … e questo l'ho compreso da anni. Nel linguaggio parlato, quello che usiamo con gli altri ma anche con noi stessi, manchiamo di quella precisione … e in fondo nella quotidianità non è necessaria. Ricordo per esempio un fatto capitato in Umbria; quell'unica persona che faceva i biglietti e anche da guida in un ottimo museo di cose etrusche, spiegava con una esattezza impressionante e un alone di freddo lo circondava. Dopo aver sentito descrivere vari oggetti, feci una domanda. Mi disse con un moto a fatica trattenuto di stizza, che me lo aveva già detto prima. In quel momento sentii che quell'alone di freddo si era trasformato in incapacità affettiva, in solitudine … e che,  con un cervello dotato di una leggera forma di autismo, quella precisione, si trasformava, lo trasformava, in un essere che sembrava inarrivabile per perfettibilità, ma anche per nulla meritevole di una sana invidia di quelle che ti fanno venir voglia di migliorare. Gli feci presente che lui era ad un livello elevatissimo e assai raro. Mi disse che se non ero preciso non voleva dire che lui era migliore … (sottinteso, non ti stai sforzando abbastanza, non fai sul serio ecc). Verso la fine della visita si scusò. Mi disse che gli avevano fatto notare varie volte che era troppo preciso e questo infastidiva i visitatori … gli strinsi la mano e lo ringraziai, aggiungendo che era stato la miglior guida che avessi mai avuto.
Ecco quel che ci accadrebbe se decidessimo di utilizzare un linguaggio necessario e sufficiente, come si direbbe in matematica. Si risulterebbe freddi, anaffettivi, irraggiungibili sì, ma con nessuno che desidererebbe raggiungerci.
In letteratura, come nelle scienze invece, si può. E Kafka aveva studiato accuratamente una scienza umana, il diritto, che fa un uso molto preciso del linguaggio e spesso, nonostante le attenzioni dei giuristi, rimane un velo di ambiguità che complica le interpretazioni perché la lingua, creatura umana, è per quanto si lotti, perfettibile ma imperfetta . 
Kafka aveva poi scoperto lo strano rigore degli studi ebraici nei quali si era inoltrato. Il suo nonno  materno, calato nell'ebraismo fino alla santità, faceva il bagno purificatore tutti i giorni nel fiume … anche da vecchio, con la sua fluente barba bianca, scendeva alla Moldava, rompeva il ghiaccio e si purificava, in un paesaggio di kavke infreddolite, l'uccello al quale il grande scrittore doveva il cognome e che il padre, per allontanare l'aura ebraica ed attirare più clienti in negozio, trasformò da kavka in Kafka. Questa amorale occidentalizzazione fece soffrire una generazione di giovani ebrei non solo a Praha, ma lì particolarmente. Praha fu sempre il subcosciente di Wien, ed ecco un esempio: Quando Mozart ebbe ultimato il "Don Giovanni", l'imperatore non acconsentí che fosse rappresentato in quella città che aveva la corte, poiché un dramma che avesse per soggetto la scandalosa immoralità di un nobile, portata all'estremo come in quel caso, era fastidiosa ... per un nido di nobili. La prima avvenne a Praha ... e fu un successo. Torniamo al nostro scrittore: Franz Kafka era più mondano, più vivo, almeno all'inizio della sua esistenza, di quanto ce lo facciano apparire le biografie. Giocava a tennis, girava in moto (gliela prestava lo zio scapolo e medico) ed ebbe varie storielle con ragazze. Poi la sua esistenza si scontrò con la amoralità del mondo che lo circondava ed iniziò ad andare, con delicatezza, controcorrente. L'apice dell'amoralità fu comunque toccata da un fratello della madre, Joseph Loewy, che si imbarcò nel 1891 per il Congo, allora proprietà personale del re del Belgio, e partecipò al massacro che venne attuato per produrre gomma e legname. Un caso simile a quello di Eichmann, che personalmente non aveva ucciso nessuno, ma collaborò in un sistema che uccise. Riceverà direttamente dalle mani di re Leopoldo la medaglia d'oro dell'ordre du Lyon Royal. 
Notate una casualità. Loewe vuol dire leone in tedesco, e Levi (tribù con oneri sacerdotali) si germanizza prendendo le sembianze, Loewy, del leone. Il premio ricevuto ha come simbolo un leone di ben altra natura, vorace e sensibile solo ai bilanci. Joseph Loewy, non può non aver visto i mucchi di mani che vennero tagliate ogniqualvolta gli schiavi del Congo non avessero raggiunto la quota di produzione programmata … e quella generazione di ebrei praghesi, sapeva molto, forse non tutto, ma giunse al punto di non accontentarsi più del brillio dell'oro nelle banche. Rallentarono il ritmo delle loro esistenze ormai dedite solo all'incremento del guadagno secondo l'insegnamento della generazione di padri .... anzi, dei nonni, e si rivolsero alla religione ormai perduta ed incomprensibile. Si pensi che per gli ebrei praghesi, Gregor Samsa, il protagonista de "la metamorfosi" era una ben precisa persona che vedevano vagare per Praha; si trattava del fratello dello scrittore Jiri Langer. Di famiglia distinta, prese il treno e si inoltrò ad est. Cinquecento chilometri in quindici giorni per arretrare  di cinquecento anni e toccare con mano la vita che vissero i suoi antenati. Una vita che al primo viaggio non sopportò. Tornò alla capitale frastornato ma poi, al secondo tentativo riuscì a rimanere e visse la realtà chassidica dei rabbini magici, una dimensione che possiamo comprendere leggendo certe opere di Isaac e Joshua Singer. Tornò a Praha col caffettano lungo, i cernecchi e vegetariano. Era il reietto per la sua famiglia, una vergogna per tutti i padri, indicato con riprovazione per strada e un esempio di coraggio per i coetanei ... era il primo vagito di una rivoluzione giovanile generazionale vera, che noi conosciamo in modo superficiale e folkloristico per i soli eventi del '68. Questo pensavano i praghesi ebrei, che Gregor fosse la storia simbolizzata e ridotta all'osso, di quel loro insopportabile reietto che osava riesumare una dimensione morale altamente condannante poiché dimostrava che i valori originari erano stati barattati con un'apparenza sicuramente linda, ma basata su una insensata accumulazione.
Un Kafka che, come Paulo Coelho, decise di andare più piano della sua epoca, che volle tanta azione del pensiero (Coelho si identificava serenamente in una lumaca), andò ben oltre quel che gli ebrei praghesi videro col suo Gregor Samsa concretizzato in un'avventura individuale ... ma anche con Carl Rossman e con il cacciatore Gracco andò oltre e si fece parabola. Dai diari (vado a memoria perché non li ho qui con me …): "Lavorare: togliere ogni giorno un pezzo di carne ad un corpo capace di felicità … scrivendo". Sognava la liberazione da quella schiavitù temporanea che era ed è, il lavoro dipendente. La malattia gli donò questa possibilità, ma lo mise anche sulla barca dei morti. Vagare su di essa … e il dialogo con le persone si fece finto, insensato, irreale. Che dire al sindaco di Riva se nulla era più misurabile col medesimo metro esistenziale? Poteva solo raccontare del suo viaggio. 

Trovo sia molto importante comprendere come sono arrivato alla soluzione di questo racconto-enigma che, fateci caso, una volta risolto sembra di una semplicità disarmante al punto che è lecito domandarsi perché non ci si è arrivati subito.
Da anni non ho dubbi sulla qualità di Kafka. Se questo dato non è mai in discussione, allora la mancata comprensione era da imputarsi ad un mio limite. Questo ragionamento mi ha fatto perseverare nella lettura e rilettura dell'opera di Kafka e, molto spesso, anche tre volte all'anno, di certi racconti che per me sono un capolavoro di profondità e semplicità, due mete che mi affascinano. Nella mia mente quindi, la domanda sul senso di quel racconto, fu ripetuta talmente tante volte da essere diventata, inconsciamente, un'esigenza fondamentale. La parte destra del cervello, si sa da anni, lavora spesso da sola; come un angelo custode vive con noi, ma va oltre la quotidianità. Mentre passeggio col cane e ho la sensazione di donare al mio corpo un momento lievemente ginnico, e di riposare la mente in vista del ritorno a casa e dell'immersione nello studio quotidiano, mentre penso e vivo questo, una parte di me, che posso considerare come un crogiolo, raccoglie tutto, lo misura, lo confronta, e mi offre le soluzioni che con più urgenza chiedo … anzi, che con profonda verità so chiederle.
La mente spesso fa così. Fior di scienziati raccontano di essere giunti a soluzioni importanti in grazia di una visione improvvisa o di un sogno. Kekulè sognò un serpente che entrava nell'esagono del benzene e vi si adagiava in forma di cerchio. Poincaré raccontò in pubblico durante una seduta della Societè de Psycologie quanto segue … "... i casi della giornata mi fecero dimenticare il mio lavoro di matematico. Giunti a Coutances, prendemmo un omnibus per andare da qualche parte. Nel momento in cui posai il piede sul predellino mi venne l'idea, senza che nulla dei miei pensieri precedenti le avesse apparentemente aperto la via, che le trasformazioni che avevo usato per definire le funzioni fuchsiane, erano identiche a quelle della geometria non euclidea".
Gauss, riferendosi a un teorema di aritmetica che si era sforzato inutilmente di dimostrare per anni, scrisse: "la soluzione del problema mi si presentò come una folgorazione improvvisa. Io stesso non so dire quale sia stato il filo conduttore che collegò ciò che già sapevo con ciò che rese possibile il mio successo".
Einstein raccontava che spesso le soluzioni gli apparivano nitide alla mente mentre si radeva e in conseguenza della sorpresa spesso si tagliava.
Ed ora concludo gli esempi con Helmholtz: le soluzioni più interessanti "... arrivarono improvvisamente, senza alcuno sforzo da parte mia … amavano presentarsi nella mente specialmente mentre camminavo senza fretta su colline boscose in una giornata di sole". 
Si noti quanto il caso di Helmholtz assomigli al mio … Ognuno di noi ha un momento della giornata nel quale si rilassa, o crede di farlo, ma accade solo parzialmente. Ma io, a differenza delle persone che ho portato ad esempio, non sono uno scienziato. Mi muovo forse spesso in quei settori della mente che qualche peccatore in superbia ama definire scienze umane. Penso ad Heidegger che camminava nei boschi e, in chiave umana e non scientifica, consciamente e inconsciamente, elaborava una strategia dell'esistere. Penso a scrittori che si svegliano con un sogno appena sognato e talmente vero per loro, nel senso del significato profondo, che basta trascriverlo il più fedelmente possibile … oppure quel giorno che, leggendo un testo di storia medievale sulle vie di pellegrinaggio, mi domandai come si potesse rendere nuovamente importante, nella nostra epoca, quel camminare antico, e mentre bevevo il caffè che mi ero appena preparato ebbi un'idea che si chiama ora "Dieci quaderni".
Ci basta un esempio semplice, quotidiano, per comprendere come funziona il nostro cervello in queste situazioni. Capita a tutti di aver dimenticato per esempio una parola, mettiamo per esempio il nome di una città, e lo sappiamo che se ci intestardiamo a ragionarci su non si arriverà a nulla. Se invece pensiamo ad altro ecco che improvvisamente quel nome, che in noi era depositato ma irraggiungibile, appare. Proust stesso nella sua mirabile Recherche, ci descrive una situazione simile. Il sapore dell'infuso di tiglio, sommato ad un boccone di madeleine appena arrivato a contatto con le papille gustative, innescò qualcosa di indefinito che dal profondo non riusciva a salire. Bevve ancora e diede un secondo morso al dolce e ancora niente, allora decise di pensare ad altro perché spesso questo aiuta, ed ecco che … appare il giardino di zia Leonie la domenica mattina prima della messa e … tutto il mondo del ricordo.
Con "Il cacciatore Gracco" la mia mente ha agito proprio come accadde ad Helmholtz, ma il suo mondo è scienza, il mio è morale. A lui servono esperimenti e calcoli, a me, come ad Heidegger o agli Scrittori, serve un'esperienza vissuta ed elaborata. 
Nel caso specifico di questo racconto due sono le esperienze vissute ed elaborate. Una mia malattia recente che ho vissuto minuziosamente, e la dipartita di una persona cara.
Mi si potrebbe far notare che a molti queste disavventure son capitate e che forse è qualcosa di mio, di personale, che fa la differenza … e io penso che non sia così. Davanti alla malattia vissuta e vista vivere, e davanti alla morte dell'altro, è fondamentale elaborare, soffrire. Trovo che da sempre, tante persone davanti a certe esperienze pensino solo a dimenticare, a scappare ... e non rielaborano ... ma tutti potrebbero. Non dico che meditando, certi fatti acquisiscano un senso, ma almeno si impara, e a me sembra sia accaduto, ad accettare. Chi non elabora vive nel presente o al massimo proiettato nel futuro. Leggere il Cacciatore Gracco è l'esperienza davanti alla morte non imminentissima, ma ormai fattasi concreta, irrevocabile, di un essere umanissimo abituato a meditare, e l'ho potuto comprendere meditando sulla mia esperienza. Io considero i grandi scrittori come compagni di viaggio dei quali il corpo è assente, ma il pensiero mi guida, mi aiuta nelle rielaborazioni del vissuto ... consigli di un amico della cui saggezza non dubito.

Grazie .... Kafka

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