Ho letto un libro di Osvaldo Guerrieri.
“Curzio”, edito da Neri Pozza. E' da parecchio tempo che sono
tentato dall'idea di scrivere qualcosa su Curzio Malaparte, forse per
questo mi son lasciato sedurre. E si è trattata di una seduzione non
facile. La copertina del libro è di un kitsch meravigliosamente
stupido ma, mi son detto, gli editori non la lasciano mai scegliere
agli autori i quali, poiché giustamente amano la loro creatura al di
là del suo valore effettivo, come l'amore di madre, quello vero,
poiché appunto fanno proprio questo diritto, poiché “pompa” le
vendite, mi faccio invece guidare dalla curiosità di sapere cosa un
altra persona pensa di questo scrittore che apprezzo moltissimo.
Di Osvaldo Guerrieri nulla so e nulla
intendo sapere. Mi basterebbe un'occhiata su internet per entrare in
possesso del suo volto, ma non sopporto queste curiosità. Un viso,
un corpo, in una foto sono entità distanti dalla realtà. Un solo
gesto, dal vero, potrebbe frantumare l'essenza che abbiamo colto
dall'immobilità della fotografia o dalla piattezza bidimensionale di
un filmato.
Disapprovo comunque il titolo.
Chiamarlo per nome, Curzio, non mi sembra il caso. Che accada dentro,
fra le pagine, ci sta, poiché ovviamente si crea un rapporto di
amicizia surreale col personaggio che abbiamo deciso di raccontare,
di comprendere. E osservo di nuovo il volto della copertina, fra due
cavalli scolpiti in posa i tempesta e una maschera carnascialesca
(preferisco questo vocabolo a quello d'uso comune perché si “sente”
di più la “carne”...); un volto da checca isterica. Un volto che
non corrisponde per niente a quello della sua opera.
Veniamo al contenuto. Il libro mi è
piaciuto. E' ben scritto, scorrevole, e funziona perchè, sull'onda
lunga di “Limonov” di Carrere, descrive un arrivista che vuol
sfondare a tutti i costi e agisce senza alcuna morale. Ma a
differenza di Limonov, che tuttora la televisione russa spesso
intervista, Malaparte scrive “maledettamente” bene, e già solo
questo aspetto avrebbe dovuto spingere, secondo me, Il Guerrieri, ad
andare oltre.
Cerco di spiegarmi. Quando lessi per la
prima volta “La pelle”, e subito di seguito, “Kaputt”,
(attirato dal caso, nella forma di una edizione vecchia che ammiccava
con l'aggiunta del ricordo depositato in un cassetto della memoria,
così, slegato e ancora senza senso, che come me, era nato fra due
mondi, quello italiano e quello tedesco), mi colpì la sua immensa
sofferenza per “i disastri della guerra”. Ho messo i “disastri”
fra virgolette, per rendere un po' più immediato il collegamento con
le incisioni di Goya che portano quel titolo. Io non sapevo niente
del processo all'assassino di Matteotti e della difesa fatta da
Malaparte, che salvò l'accusato e mondò il volto apparente del
dittatore, di Malaparte non sapevo assolutamente nulla. E quei libri
mi conquistarono per capacità di colpire al cuore con immagini
indimenticabili. La guerra, la ferocia pura e inaccettabile da un
qualsiasi essere dotato di sensibilità. Posso dire che la medesima
potenza l'ho trovata in due volumi autobiografici di Elga Schneider,
“Il rogo di Berlino” e, più di tutti, “Lasciami andare madre”.
E la continua domanda che aleggia nel
libro … se i fatti narrati son veri, o parzialmente veri, o pura
fantasia, la trovo insensata. Quel che conta è che le sue immagini,
così potenti, così devastanti, si scolpiscono nella mente e vi
rimangono per sempre e che l'orrore per la guerra si fa nostro in
modo totale, come appunto mi accadde con Helga Schneider e Goya.
Forse non sa Osvaldo Guerrieri, che
l'artista inventa! La realtà per lui altro non è che materiale che
se vuole, può usare e, sempre se lo ritiene opportuno, modificare.
Se un Uomo, ha un vero messaggio da
trasmettere, un messaggio che urge, che fa male dentro, diventa
secondario, assolutamente ininfluente sul giudizio di qualità che ne
daremo, se ha inventato o meno. C'è più verità in un racconto di
pura fantasia di Kafka che in migliaia di opere che pretendono di
descrivere la realtà, cosa di fatti impossibile. La visione può
essere solo individuale, soggettiva. Zola, il principe degli illusi,
che pretendeva di essere assolutamente oggettivo, di descrivere senza
coinvolgimento quel che osservava, fa tenerezza, ad un lettore del
principio del ventunesimo secolo, poiché risulta evidente che egli
aveva un'idea per esempio del rapporto fra la moralità di un povero
che non riuscendo ad emanciparsi, si lascia andare all'abiezione,
allo “Scannatoio”, dell'osteria e non solo. Ma era suo questo
schema, e in esso forzava i dati che sceglieva, si ricordi,
sceglieva, per rendere dimostrata la sua tesi.
Secondo me con le due opere di
Malaparte, la vita e l'opera, si devono fare i conti in modo
differente.
Il suo comportamento, così fortemente
anaffettivo, bilanciato da questo rispetto così grande per i cani,
potrebbe insegnare qualcosa? Secondo me si.
Malaparte, capì velocemente che la
vita quotidiana era una lotta di tutti contro tutti, che gli ideali,
dai quali all'inizio si lasciò sedurre, erano un paravento, una
facciata, una ipocrisia sistemica.
Quel che è curioso è che, l'ipocrisia
degli ideali, questo scrittore la colse con la delusione del
comportamento di Mussolini. (Premetto che non m'interesso di
politica, non sono schierato quindi ho l'illusione di essere libero
…). Esistevano tre blocchi: liberismo, comunismo e fascismo. Lui
scelse il fascismo ma lo considerò rovinato dal protagonismo di
Mussolini. L'ideale fascista quindi, ridotto a parole che
nascondevano, e malissimo, il desiderio di un uomo di essere
divinizzato. A questo punto il passo verso l'uso strumentale di
uomini e ideali ipocriti, per vivere al meglio, non sembra così
assurda. Se all'epoca si decideva di essere fascisti i motivi erano
fondamentalmente tre, l'urgente fisicità della giovinezza, il senso
di ordine che, con le medesime maniere violente e dirette dei
comunisti, si voleva ottenere, e la reazione al capitalismo che,
questa volta in maniera indiretta, massacravano l'esistenza delle
persone. Io, che mi considero profondamente non violento, non avrei
resistito in nessuna di queste “parrocchie” e se penso alla
nostra, alla mia epoca, nella quale sopravvivo con tristezza, deduco
che la vittoria del capitalismo neoliberista sia arrivata al punto
che esiste un regnante che sembra occulto, ma nome e cognome li so e
si possono facilmente dedurre, che fa viver male ormai tutti tutti
tutti.
Spesso osservo con affetto la foto di
Curzio Malaparte che, ben vestito e giovane, siede i fianco al suo
Febo. In questo gli somiglio. Spesso dico che son stato allevato da
Mafalda, un grosso cane pieno di vera umanità, e tuttora, dopo anni
dalla sua dipartita, riconosco come i migliori, gli anni passati con
lei. Figlio di un cane. Si, e ne sono fiero. E ringrazio la sorte di
avermi dato quella madre dallo sguardo infinito e capace di esempi
semplici ma pieni di amore vero, senza ipocrisie.
Guardo quella foto e riconosco, e
riesco a mettere in ordine tutta la sua vita, tutte le sue
solitudini, che assumono un senso tragico ma di valore.
Le biografie di uomini che sembra non
abbiano rispettato niente e nessuno, da quando l'uomo sembra un
essere capace di pensiero, son sempre andate di moda. Si pensi ai
vari Caligola, Nerone e Giulio Cesare, Alessandro il grande e poi via
col tempo a cercare anche nelle caste più basse e a riempire di
valori a volte irreali (visconte di saint Germain per esempio) oppure
estremi, come Rasputin, Jan Potocki, Restiv de la Bretonne, Casanova
e Cagliostro … e Malaparte.
Ora si è scesi alla plebe mentale pura
della quale Limonov è simbolo e moda, ma … ed è un grande ma, se
leggo, com'è accaduto a me, un'opera di Malaparte, senza sapere
niente di lui, quel che ottengo non è moda, ma un arricchimento
eccezionale della mia sensibilità. La morte di Febo, per esempio, il
cane della foto, fatto che, come sottolinea Guerrieri, avvenne mentre
lo scrittore era via, fu ingigantita in “La pelle”, in un modo
che è veramente, dico veramente, indimenticabile. E comprendere per
quale motivo Malaparte ha agito così è per me, che cerco di
scrivere col cuore in mano, comprensibilissimo. Mi spiego. Due anni
prima che Mafalda morisse, ormai vecchia e assai sgangherata, stampai
a mie spese un libretto che ebbe l'incasso devoluto poi in
beneficenza. Immaginavo Lei, la mia Mafalda, che mi aveva scritto una
lettera che era a preambolo del libretto. In essa mi diceva che
sentiva la natura che la stava chiamando ed era preoccupata perché
non sapeva a chi lasciarmi. Di notte poteva saltare dentro ai sogni e
starmi vicino, “ma di giorno … di giorno a chi ti lascio” e mi
commuovo tuttora pensando al monumento che le feci, come Malaparte
fece per Febo, con queste parole … e questo dirle grazie per il suo
affetto così sincero, così disarmante, così vero, così nostro,
suo e mio, ma in fondo di tutti coloro che sanno cos'è un affetto.
Penso di essermi spiegato. Ecco cosa
manca in quel libro, scritto bene e ben leggibile; doti che aiutano
ma purtroppo da sole non bastano. Borges diceva: “la bellezza oggi
è comune. Conta ora quel che merita di essere ricordato”. E Borges
vide giusto. Si tratta quindi per Malaparte e non solo, di aver
meritato uno spazio nella nostra memoria.
MI PIACCIONO TRE COSE : ZOLA PRINCIPE DEGLI ILLUSI , LA MALEDETTAMENTE MERAVIGLIOSA FANTASIA DI KAFKA-KOPPF E LA SKIFOSA COPERTINA. MA OFFRO UN TRIBUTO A LEI KEMI HA FATTO AMARE L'ARTE E LA POESIA PIù DI QUANTO L'AMASSI GIA'....sAPERE ? CHE SO IO?PENSARE è DISCREDERE...LA SCIENZA, UNA FATA NEL RACCONTO DI UN FOLLE
RispondiEliminaIL TRIBUTO è DI pESSOA ...PERCHè IL POETA - CANTAUTORE VECCHIONI LO CRITICA TANTO ? A ME MI PIACCIONO ENTRAMBI MAQ PENSO ABBIA RAGIONE PESSOA .... MI PUò DARE UN PARERE?
RispondiEliminaHello mate greeat blog post
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RispondiElimina