giovedì 4 giugno 2015

"Curzio" di Osvaldo Guerrieri





Ho letto un libro di Osvaldo Guerrieri. “Curzio”, edito da Neri Pozza. E' da parecchio tempo che sono tentato dall'idea di scrivere qualcosa su Curzio Malaparte, forse per questo mi son lasciato sedurre. E si è trattata di una seduzione non facile. La copertina del libro è di un kitsch meravigliosamente stupido ma, mi son detto, gli editori non la lasciano mai scegliere agli autori i quali, poiché giustamente amano la loro creatura al di là del suo valore effettivo, come l'amore di madre, quello vero, poiché appunto fanno proprio questo diritto, poiché “pompa” le vendite, mi faccio invece guidare dalla curiosità di sapere cosa un altra persona pensa di questo scrittore che apprezzo moltissimo.
Di Osvaldo Guerrieri nulla so e nulla intendo sapere. Mi basterebbe un'occhiata su internet per entrare in possesso del suo volto, ma non sopporto queste curiosità. Un viso, un corpo, in una foto sono entità distanti dalla realtà. Un solo gesto, dal vero, potrebbe frantumare l'essenza che abbiamo colto dall'immobilità della fotografia o dalla piattezza bidimensionale di un filmato.
Disapprovo comunque il titolo. Chiamarlo per nome, Curzio, non mi sembra il caso. Che accada dentro, fra le pagine, ci sta, poiché ovviamente si crea un rapporto di amicizia surreale col personaggio che abbiamo deciso di raccontare, di comprendere. E osservo di nuovo il volto della copertina, fra due cavalli scolpiti in posa i tempesta e una maschera carnascialesca (preferisco questo vocabolo a quello d'uso comune perché si “sente” di più la “carne”...); un volto da checca isterica. Un volto che non corrisponde per niente a quello della sua opera.

Veniamo al contenuto. Il libro mi è piaciuto. E' ben scritto, scorrevole, e funziona perchè, sull'onda lunga di “Limonov” di Carrere, descrive un arrivista che vuol sfondare a tutti i costi e agisce senza alcuna morale. Ma a differenza di Limonov, che tuttora la televisione russa spesso intervista, Malaparte scrive “maledettamente” bene, e già solo questo aspetto avrebbe dovuto spingere, secondo me, Il Guerrieri, ad andare oltre.
Cerco di spiegarmi. Quando lessi per la prima volta “La pelle”, e subito di seguito, “Kaputt”, (attirato dal caso, nella forma di una edizione vecchia che ammiccava con l'aggiunta del ricordo depositato in un cassetto della memoria, così, slegato e ancora senza senso, che come me, era nato fra due mondi, quello italiano e quello tedesco), mi colpì la sua immensa sofferenza per “i disastri della guerra”. Ho messo i “disastri” fra virgolette, per rendere un po' più immediato il collegamento con le incisioni di Goya che portano quel titolo. Io non sapevo niente del processo all'assassino di Matteotti e della difesa fatta da Malaparte, che salvò l'accusato e mondò il volto apparente del dittatore, di Malaparte non sapevo assolutamente nulla. E quei libri mi conquistarono per capacità di colpire al cuore con immagini indimenticabili. La guerra, la ferocia pura e inaccettabile da un qualsiasi essere dotato di sensibilità. Posso dire che la medesima potenza l'ho trovata in due volumi autobiografici di Elga Schneider, “Il rogo di Berlino” e, più di tutti, “Lasciami andare madre”.
E la continua domanda che aleggia nel libro … se i fatti narrati son veri, o parzialmente veri, o pura fantasia, la trovo insensata. Quel che conta è che le sue immagini, così potenti, così devastanti, si scolpiscono nella mente e vi rimangono per sempre e che l'orrore per la guerra si fa nostro in modo totale, come appunto mi accadde con Helga Schneider e Goya.
Forse non sa Osvaldo Guerrieri, che l'artista inventa! La realtà per lui altro non è che materiale che se vuole, può usare e, sempre se lo ritiene opportuno, modificare.
Se un Uomo, ha un vero messaggio da trasmettere, un messaggio che urge, che fa male dentro, diventa secondario, assolutamente ininfluente sul giudizio di qualità che ne daremo, se ha inventato o meno. C'è più verità in un racconto di pura fantasia di Kafka che in migliaia di opere che pretendono di descrivere la realtà, cosa di fatti impossibile. La visione può essere solo individuale, soggettiva. Zola, il principe degli illusi, che pretendeva di essere assolutamente oggettivo, di descrivere senza coinvolgimento quel che osservava, fa tenerezza, ad un lettore del principio del ventunesimo secolo, poiché risulta evidente che egli aveva un'idea per esempio del rapporto fra la moralità di un povero che non riuscendo ad emanciparsi, si lascia andare all'abiezione, allo “Scannatoio”, dell'osteria e non solo. Ma era suo questo schema, e in esso forzava i dati che sceglieva, si ricordi, sceglieva, per rendere dimostrata la sua tesi.

Secondo me con le due opere di Malaparte, la vita e l'opera, si devono fare i conti in modo differente.



Il suo comportamento, così fortemente anaffettivo, bilanciato da questo rispetto così grande per i cani, potrebbe insegnare qualcosa? Secondo me si.
Malaparte, capì velocemente che la vita quotidiana era una lotta di tutti contro tutti, che gli ideali, dai quali all'inizio si lasciò sedurre, erano un paravento, una facciata, una ipocrisia sistemica.
Quel che è curioso è che, l'ipocrisia degli ideali, questo scrittore la colse con la delusione del comportamento di Mussolini. (Premetto che non m'interesso di politica, non sono schierato quindi ho l'illusione di essere libero …). Esistevano tre blocchi: liberismo, comunismo e fascismo. Lui scelse il fascismo ma lo considerò rovinato dal protagonismo di Mussolini. L'ideale fascista quindi, ridotto a parole che nascondevano, e malissimo, il desiderio di un uomo di essere divinizzato. A questo punto il passo verso l'uso strumentale di uomini e ideali ipocriti, per vivere al meglio, non sembra così assurda. Se all'epoca si decideva di essere fascisti i motivi erano fondamentalmente tre, l'urgente fisicità della giovinezza, il senso di ordine che, con le medesime maniere violente e dirette dei comunisti, si voleva ottenere, e la reazione al capitalismo che, questa volta in maniera indiretta, massacravano l'esistenza delle persone. Io, che mi considero profondamente non violento, non avrei resistito in nessuna di queste “parrocchie” e se penso alla nostra, alla mia epoca, nella quale sopravvivo con tristezza, deduco che la vittoria del capitalismo neoliberista sia arrivata al punto che esiste un regnante che sembra occulto, ma nome e cognome li so e si possono facilmente dedurre, che fa viver male ormai tutti tutti tutti.

Spesso osservo con affetto la foto di Curzio Malaparte che, ben vestito e giovane, siede i fianco al suo Febo. In questo gli somiglio. Spesso dico che son stato allevato da Mafalda, un grosso cane pieno di vera umanità, e tuttora, dopo anni dalla sua dipartita, riconosco come i migliori, gli anni passati con lei. Figlio di un cane. Si, e ne sono fiero. E ringrazio la sorte di avermi dato quella madre dallo sguardo infinito e capace di esempi semplici ma pieni di amore vero, senza ipocrisie.
Guardo quella foto e riconosco, e riesco a mettere in ordine tutta la sua vita, tutte le sue solitudini, che assumono un senso tragico ma di valore.

Le biografie di uomini che sembra non abbiano rispettato niente e nessuno, da quando l'uomo sembra un essere capace di pensiero, son sempre andate di moda. Si pensi ai vari Caligola, Nerone e Giulio Cesare, Alessandro il grande e poi via col tempo a cercare anche nelle caste più basse e a riempire di valori a volte irreali (visconte di saint Germain per esempio) oppure estremi, come Rasputin, Jan Potocki, Restiv de la Bretonne, Casanova e Cagliostro … e Malaparte.
Ora si è scesi alla plebe mentale pura della quale Limonov è simbolo e moda, ma … ed è un grande ma, se leggo, com'è accaduto a me, un'opera di Malaparte, senza sapere niente di lui, quel che ottengo non è moda, ma un arricchimento eccezionale della mia sensibilità. La morte di Febo, per esempio, il cane della foto, fatto che, come sottolinea Guerrieri, avvenne mentre lo scrittore era via, fu ingigantita in “La pelle”, in un modo che è veramente, dico veramente, indimenticabile. E comprendere per quale motivo Malaparte ha agito così è per me, che cerco di scrivere col cuore in mano, comprensibilissimo. Mi spiego. Due anni prima che Mafalda morisse, ormai vecchia e assai sgangherata, stampai a mie spese un libretto che ebbe l'incasso devoluto poi in beneficenza. Immaginavo Lei, la mia Mafalda, che mi aveva scritto una lettera che era a preambolo del libretto. In essa mi diceva che sentiva la natura che la stava chiamando ed era preoccupata perché non sapeva a chi lasciarmi. Di notte poteva saltare dentro ai sogni e starmi vicino, “ma di giorno … di giorno a chi ti lascio” e mi commuovo tuttora pensando al monumento che le feci, come Malaparte fece per Febo, con queste parole … e questo dirle grazie per il suo affetto così sincero, così disarmante, così vero, così nostro, suo e mio, ma in fondo di tutti coloro che sanno cos'è un affetto.
Penso di essermi spiegato. Ecco cosa manca in quel libro, scritto bene e ben leggibile; doti che aiutano ma purtroppo da sole non bastano. Borges diceva: “la bellezza oggi è comune. Conta ora quel che merita di essere ricordato”. E Borges vide giusto. Si tratta quindi per Malaparte e non solo, di aver meritato uno spazio nella nostra memoria.



4 commenti:

  1. MI PIACCIONO TRE COSE : ZOLA PRINCIPE DEGLI ILLUSI , LA MALEDETTAMENTE MERAVIGLIOSA FANTASIA DI KAFKA-KOPPF E LA SKIFOSA COPERTINA. MA OFFRO UN TRIBUTO A LEI KEMI HA FATTO AMARE L'ARTE E LA POESIA PIù DI QUANTO L'AMASSI GIA'....sAPERE ? CHE SO IO?PENSARE è DISCREDERE...LA SCIENZA, UNA FATA NEL RACCONTO DI UN FOLLE

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  2. IL TRIBUTO è DI pESSOA ...PERCHè IL POETA - CANTAUTORE VECCHIONI LO CRITICA TANTO ? A ME MI PIACCIONO ENTRAMBI MAQ PENSO ABBIA RAGIONE PESSOA .... MI PUò DARE UN PARERE?

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