Da tanto tempo non scrivo più di Tonino Guerra. Scrivo poco
anche per il blog. Uno dei motivi è che sto leggendo molto e che dal trentuno
ottobre son tornato a scrivere. Le “cose” per il blog, la saggistica in genere,
le scrivo col computer. Quando si tratta di letteratura scrivo a mano. Di
solito con la stilografica. Cerco di mantener viva un poco di artigianalità
nella scrittura. Scelgo gli inchiostri. Li miscelo fino ad ottener sfumature
che in quel certo periodo collimano col mio stato d’animo e poi inizio. Ma
tutto deve avere i suoi tempi. Non posso decidere “ora scrivo”! Quando accade
che mi sento pronto tutto va da sé e spesso, non essendoci le condizioni, o
perché c’è gente, o perché un impegno assolutamente non lo permette, mi ritrovo
con uno spunto, scritto per non dimenticare ma ormai il momento inspiegabile, carico di
possibilità, è passato. Le parole che sarebbero fluite dalla stilografica con
una semplicità che sempre sconcerta anche me, son tornate nel loro mondo al
quale non ho accesso se non di rado.
Il trentuno ottobre, mentre ero in volo fra Francoforte e
Amburgo, ho scritto otto pagine, come una furia. Di solito lascio decantare per
minimo sei mesi nel silenzio di un cassetto, ma questa volta ho agito appena
tornato da questo viaggio. Nel passare alla seconda stesura, per la quale uso
il computer, lo scritto si allunga. Al terzo “incontro”, che può avvenire senza
regola dopo due giorni o vent’anni, mi limito a correggere e accade, col tempo,
che lo scritto si fa immobile, che più niente sono in grado di dargli e penso
che sia dovuto al fatto che l’io che ha scritto e l’io che corregge, avendo
accumulato una differenza di vita vissuta fattasi ormai considerevole, non son
più gemelli nell’anima, ma prima fratelli, poi amici e infine semplici
conoscenti. Quando leggo “cose” scritte vent’anni fa. Sorrido di quell’io che
riconosco e tratto con la medesima indulgenza che avrebbe un padre nei
confronti delle passioni di un figlio che vede ancora imbevute di troppa
emotività, di troppa energia senza direzione. Una voglia di fare fine a se
stessa, una propulsione che potenzialmente fa di tutto, un argomento, nel quale
scaricare una tensione … e invece la letterature, l’arte in genere è qualcosa
di più ….
Queste ultime parole non voglion dire che a vent’anni non si
può fare qualcosa di buono in arte. Per chi dubita, invito a cercare su
internet i due ritratti che un Picasso quattordicenne fece al padre e alla
madre. Si coglie immediatamente in queste tele, che quel ragazzino aveva
raggiunto, a quella “veneranda” età, la saggezza pittorica, la capacità
rappresentativa della cultura occidentale. Dopo son i casi della vita, che
quasi mai dipendono da noi, a fare si che l’opera abbia l’ambiente giusto per
crescere. Si provi a mettere l’età di fianco alle opere di Michelangelo e si
rimarrà sbalorditi. Questo dimostra che nonostante il furore dei sensi e la
voglia di vivere che è maggiore delle possibilità della vita stessa, proprio
nell’età più giovane, spesso già appunto a quattordici anni, qualcosa di grande
può accadere. E lo spiego con un semplice ragionamento. L’adulto, e l’uomo che
continua a crescere, accumula conoscenza e questa schiaccia immagini pure, che
sono nel ragazzo, non costrette da regole e convenzioni morali o accademiche.
Un esempio è quello di Gabriel Garcia Marquez. In un periodo della sua vita,
per andare al lavoro, doveva prendere l’autobus e fare un percorso che durava
un’ora. Aveva quindi due ore che dedicava alla lettura. La scelta era spesso
dettata dal caso, ovviamente scelto fra quell’empireo di grandi che un’epoca ha
deciso di definire tali. Lesse “La Metamorfosi” di Kafka, autore che più di
un’epoca non ha compreso, ma del quale ha intuito il valore. Destino tragico
quello di Kafka, sia in vita che nel rapporto della sua opera con gli
intellettuali. La sua letteratura, forse più di tutte le sue coetanee dei primi
del novecento, era sgorgata da un’interiorità sguinzagliata senza
addomesticamenti. Fu, era, ed è difficile da comprendere. I docenti, e tutto
quel mondo che si vanta di aver l’oro in tasca per quel che riguarda le
interpretazioni delle opere, son stati contentissimi di aver avuto a
disposizione una “cosa” complessa. Si può dir tutto e il contrario di tutto! E
così Kafka, anzi l’opera sua, si è ritrovata ad esser utile ad una categoria
che è strapagata per dire qualcosa anche se non la capisce. È una recita fra
attori mediocri. Tutto qui. Marquez era una mente fresca che non si era ancora
costretta alle regole, anche un po’ era già stato addomesticato. Leggendo “La
Metamorfosi” rimase sbalordito e pensò: “Se lui ha potuto raccontare questo,
allora anch’io posso descrivere il mondo che ho dentro!” ed ecco prendere forma
Remedios la Bella, la Mamà grande, un vecchio con certe ali enormi e Macondo e
…. Si, e “Cent’anni di solitudine”, che è un torrente in piena di spontaneità e
di fantasia giovane, non addomesticata dalla scuola e dalla cultura. Questo
accadrà sempre quindi “occhio ai giovani!”
Moravia scrisse “Gli indifferenti”. Quanti anni aveva? Non
ve lo dico.
E che età aveva un certo Leonardo quando dipinse due
figurette in un’opera del suo maestro di bottega che si chiamava Verrocchio
lasciandolo di stucco per l’abilità dimostrata? Anche questo non ve lo dico…
Chi scrive ormai inoltrato in altre età, ha due scelte: uno
scaltro mestiere che riveste le due o tre idee che danno forma e originalità
(si spera) al suo io, oppure, ma non dipende da noi se non in minima parte,
deve accadere qualcosa nel tran tran ormai monotono dell’esistenza che sia in
grado di scardinare le radici, si da costringerci a rifondarle. Ultimamente la
Fornero, Monti e altri strani esseri ci stanno offrendo una situazione simile
alla seconda opzione. Tante forme di finta civiltà e non solo quei due
cannibali, possono creare danno. Si pensi alle poesie scritte da Ungaretti in
guerra. Son eccellenti, ma avrei preferito non ci fosse stata la guerra e con
essa non avrei sentito la mancanza di quelle poesie. Preferisco insomma pensare
che quei sradicamenti che costringono a una rifondazione dell’io, sian dovuti a
fatti inevitabili, come la morte di una persona cara, una delusione d’amore
eccetera. Se l’intento di Crudelia e di Monti è di metterci nelle condizioni di
avere una futura ondata di grandi artisti ….. propongo una tonnellata di
lassativo, così per il resto della loro esistenza avranno altro a cui pensare …
Mi si perdoni lo sfogo, ma quando le cause della malattia
son evidenti e la cura non ha nulla a che fare con essa, ovviamente ci si può
alterare.
Torniamo a quel che ho scritto in aereo. Ovviamente non ho
usato la stilografica. Lo sbalzo di pressione fra decollo e volo è sufficiente
a trasformare una di quelle penne, eccellenti quando si è a terra, in una
fontana che uccide giacche camice e quant’altro sia a loro vicino. Ho sorriso
di questo. Dopo anni, ho scritto con una penna a sfera tedesca, su un volo
tedesco, in un cielo tedesco, e ho scritto qualcosa che ha, così mi han detto i
miei pochissimi lettori, l’atmosfera di Kafka… E’ un piccolo brano che mostra
alcuni paradossi del concetto umano di giustizia, scritto in un modo stringato.
Un matematico direbbe, necessario e sufficiente, e questo ha fatto dire appunto
a qualcuno, che assomiglia a kafka. Lui era laureato in giurisprudenza e
utilizzò spesso l’aridità di quel linguaggio per esprimere certe idee. Mi
distanzio immediatamente dal paragone con quell’astro che considero per ora
insuperato. A me interessa essere me stesso. Essere un puzzle di altri
attualmente accade troppo spesso e di solito questo tipo di autore viene lodato
perché fa sentire intelligente chi legge. Riconosce le citazioni, si sente
colto e in grazia di questa bella sensazione decide che l’opera vale.
Squisitezze latrinesche da intellettuali…
E’ accaduto poi che qualcuno ad Amburgo, mi abbia chiesto:
“la tua roba mi inquieta, ma non hai qualcosa a lieto fine?” Ce l’avevo, e pure
già pubblicato, ma non a portata di mano. Non giro come un rappresentante con
la mia merce appresso. E così, distante da casa, con molta mondanità da
assecondare, ogni tanto mi isolavo e pensavo ad una favola. È nata poi, in
suolo italico, e della favola ha le immagini, le parole, ma non so se è il caso
che i bambini la leggano. L’ho inviata a chi l’ha chiesta come una sfida
sorridente ed è finita li. I miei pochi lettori, che conosco personalmente
l’hanno ricevuta e altro pubblico non lo cerco. Son geloso dei miei figli. Chi
di voi manderebbe una sua creatura a lavorare da gente che non stima? Un
racconto dovrebbe piacere ad un editore … e siamo a posto! Non distinguono un
water da una sedia … e i risultati si vedono. Immondizia in forma di libro e
quasi nulla di commestibile. Rispetto il pubblico. Ha una sua innocenza
positiva. Aborro gli editori. Finiti da qualche anno, (per non dire decenni e
facendo bene i conti, un cinquantennio), i bei tempi nei queli peraltro non
esistevo e nemmeno ero stato progettato, quando in casa editrice potevi trovare
un Pavese che non ne sbagliava una. Già quattro o cinque anni dopo, un
raccomandato senza arte ne parte si permise di scartare i”Il Gattopardo” … il
resto è storia. Un magro presente nel quale un lettore che considera il libro
non solo un divertimento, un passatempo, ma anche una fonte per l’interiorità,
è costretto a leggere e rileggere i classici. Ma il suo tempo. In cosa lo trova
rappresentato, raccolto, asciugato, cristallizzato, compreso?
L’opera esiste, ma la struttura che dovrebbe renderla
visibile, ha perso da ormai troppo tempo il contatto con la realtà. Amen.
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