La fine del corpo di Tonino, accaduta
nel primo giorno di primavera, ma ha inebetito per tutti i giorni
seguenti fino a questa mattina quando, alla vista di un gruppo di
fenicotteri rosa, qualcosa in me si è risvegliato. Penso di aver
ritrovato una parte di me stesso. Spesso, all'alba, o quando potevo,
mi recavo a Santarcangelo, sedevo sul retro del monumento ai caduti
della piazza e osservavo l'appartamento ha spiccato il volo. Lora, la
moglie, accuratamente dispone fiori nei vasi e qualcuno, mi piace
pensare che sia lei, li nutre d'acqua. Mi diceva Tonino che
quell'appartamento, che stava contenendo la sua fine, era l'unico
abitato della piazza. È una delle aberrazioni italiane e forse non
accade solo qui. Le banche e le grandi aziende, comprano gli edifici
sulle piazze dimenticando che in Italia, questa terra con l'anima nel
sud, vive quello spazio come un salotto che ha come soffitto il
cielo. Gli uffici chiudono a una certa ora e nei giorni festivi son
deserti. Così la gente deve migrare dalla periferia che per un
italiano è già a due passi oltre la piazza o la via preferita per
il passeggio. Il centro è dove ci si vede, dove si dialoga, dove si
va per incontrarsi e costruire, dopo aver concluso gli edifici, la
civiltà. Ricordo con fascinazione, Ascoli Piceno. Verso il tramonto,
la piazza principale, che fino a quel momento era stata solo un
crocevia di casuali passaggi, si riempie fino all'inverosimile. Io,
seduto in compagnia di una birra, osservo il duomo alla mia destra e
quella folla. Non il duomo, non i muri son Ascoli, ma quella gente
che eternamente si radunerà sempre qui al tramonto. Se osservate
oggi un cavallo nel paesaggio e fra vent'anni, ripassando, nel
paesaggio vedete di nuovo un cavallo, se siete sensibili saprete di
aver osservato e di osservare, oggi come domani e per sempre, il
Cavallo come entità eterna. Così gli ascolani, semplici, popolari,
vocianti e antichi. Penso che anche i gesti di quella donna ben
vestita, quel muovere il braccio e schiudere la mano nell'intento di
rafforzare una frase appena detta, siano antichi, inconsapevolmente
tramandati, come inconsapevole è per loro che stanno vivendo,
cogliere questa eternità nell'attimo.
E Siena, che mi accolse in una sera
d'estate e alcuni senesi erano stesi in piazza esattamente come si
farebbe sul divano di casa. La famigliarità delle piazze italiane,
la loro vita. E penso anche a New York che ha trasformato le piazze
in incroci e ci si incontra solo nei locali e forse, nei parchi che
in loro fanno scattare un istinto ginnico e non certo di meditazione.
E, nella piazza di Santarcangelo,
guardando la finestra, spesso vedevo me stesso che si affacciava in
quei giorni duri, ad abbeverarmi di un po' di luce e tornare carico
per trasformarlo in sorrisi, compagnia, dialogo di quel che lui e io
quasi segretamente, si amava.
Son tornato in me, forse solo per
qualche ora; ancora non so, ma lo devo anche ad un'amica sconosciuta.
Si chiama Paola Capriolo. Ieri sera ho preso in mano un suo libro e
mi son detto “proviamo se riesco a leggere un po'” perché una
delle conseguenze più spiacevoli, per me è stata, da dicembre,
l'incapacità di concentrarmi in un libro per più di una decina di
pagine. Ho scelto “La spettatrice”. La mia è una prima edizione
del 1995. ho tolto con fastidio la sovracoperta e ho tentato le prime
parole.
Sì, Quella sovracoperta la odio e un
poco la amo. Sotto al titolo, l'immagine di Beardsley mi
infastidisce. Si intitola “gli amanti di Wagner” e mostra in
primo piano due donne che percepisco come mostruose, incapaci di
dolcezza e un volto d'uomo di profilo che ha per me sapore di
cinismo. In fondo si vede un palco ornato da coppie di colonne che
contiene due figure femminili. Queste, rese innocue dalla distanza,
sono idealizzabili; quella a sinistra mi sembra una dama
rinascimentale, quella a destra, una dama di Rossetti, dura dura, ma
pura.
Il particolare che più mi destabilizza
e mi allontana dall'essere quell'acqua tranquilla che è in grado di
ricevere e riflettere i raggi del sole, è l'immagine di lei,
l'autrice, sul retro di copertina. Per quanto sia evidentemente in
posa, colgo negli occhi la sorpresa di chi anche se sa che stanno
fotografando, pensa con disgusto che quella immagine di sé, che ben
poco rappresenta quel che siamo o pensiamo di essere, farà il giro
di molte case. Indifesa nel mondo. Bisognosa di una realtà ideale
che ben poco o quasi nulla di umano intorno a lei, è in grado di
incarnare. E io che son protettivo, la trovo bella per questa sua
fragilità e poi ammetto a me stesso che non è solo così. L'istinto
la guarda e la trova interessante... ed ecco che l'acqua si fa
increspata e poi onda. Non si deve leggere mai con i sensi! Quasi mi
arrabbio con me stesso che non ho resistito e mi son lasciato andare
al suo musetto che trovo grazioso. Tolgo quindi la copertina, accendo
un incenso, attendo che l'aria sia profumata e accarezzo Lolita. Mi
nutro del suo sano affetto, e recupero la limpidezza, la calma che
può far riflettere i raggi del “pianeta che mena dritto altrui per
ogni calle”. Sono pronto. Inizio la lettura. La prima facciata di
sapore borgesiano, è costruita ed elegante. “...narrare...una
possibile storia di Vulpius....pochi elementi certi di cui
disponiamo. Che sia poi la sua storia vera, o almeno la più
verosimile, non mi sentirei di affermarlo.” Bene. Io che sono il
lettore mi faccio alleato e indagherò con lei questa vicenda. Nella
facciata successiva inciampo in una fastidiosa ripetizione.
Intrattiene- intrattenuti. Per una frazione di secondo torno alla
realtà e poi riprendo il cammino semionirico. Mi tiene sempre
parzialmente ancorato alla realtà un modo di scrivere così
accuratamente costruito da rasentare l'artificialità. Costruire
troppo è ingabbiare. Sento che la scrittrice agisce al limite ma non
cade mai nella costrizione solamente intelligente. C'è qualcosa di
sensibile che la guida e la rende sempre più che presentabile. Da
sempre penso che chi costruisce troppo in arte lo fa per uno dei
seguenti motivi. O eccessiva solitudine, e qualcosa bisogna pur fare,
o l'essere incastonati in un sistema sociale che richiede questa
apparenza per essere stimati. Accade poi che quell'apparenza si fa
abitudine, la maschera diventa il volto e chi la indossa ne perde la
consapevolezza. Per lei penso si tratti di solitudine. In essa accade
che i pensieri girino in tondo all'unico epicentro che a loro si
offre, se stessi, e la precisione rischia di farsi minuziosa per
approdare poi all'ossessione. In lei non accade. So che ha dei gatti
e legge molto e, se sai fare, se intimamente hai compreso, si tratta
di due modi di relazionarsi, non nella realtà sociale, ma in una
dimensione personalissima che curerai e rispetterai con sacra
attenzione perché da essa dipende la tua possibilità di salvarti
dalla sempre possibile perdizione. Mi lascio andare alla lettura del
libro, passano i minuti, si fanno ore. Con questo libro di valore ho
ritrovato i miei passi, l'atmosfera di corridoio vuoto, di gente
appena passata, di odore di vita appena accaduta, e respiro me stesso
ritrovato.
Penso poi a quella ripetizione che ho
accusato di avermi distratto dal fluire della scrittura.
…..Questa mattina ho visto i
fenicotteri e ho scritto. Ricordo di aver prodotto una ripetizione e
di non averci fatto caso più di tanto, perché avevo premura di
avvolgere il più accuratamente possibile quanto appena vissuto in
quella ventina di misteriose lettere dell'alfabeto.
La perfezione stilistica nutre il
corpo, non devo cercarla perfetta. Chi in essa si esaurisce è come
se si sentisse sazio di vita dopo aver nutrito i sensi fino
all'eccesso.
Questo libro poi è una tappa di un
cammino che secondo me raggiunge l'apice in “Una luce nerissima”.
Ricordo che ero al supermercato e vendevano libri a due euro al
chilo, più o meno il prezzo di due caffè. C'era quel libro. Lo
presi e lo scoprii il capolavoro.
Ho sempre detto che De Andrè era degno
del Nobel per la letteratura. Mi trattarono con indulgenza, come un
malato irrecuperabile. Ora è il genio italiano del secondo novecento
e qualcuno, in altre parti del pianeta non trova stupido candidare
Bob Dylan. Trovavo degno di quel titolo, Tonino Guerra, e prima di
lui Manganelli, e poi Flaiano e Savinio. E penso che di tutti questi
nomi solo De andrè ha una notorietà giusta, inscalfibile e
destinata a crescere. L'Italia non esiste se non sa identificare i
suoi grandi e rispettarli, riconoscersi in essi. Attualmente, degni
di una candidatura che un tempo era considerata la massima
consacrazione, sono secondo me Paola Capriolo, Roberto Vecchioni, e
Francesco de Gregori. Mi risulta che per ora, la finzione che
conosciamo col nome di Saviano (e che nulla ha a che fare con la
letteratura e comunque la parola elevata ad arte), sia in pole
psoition, l'abbiamo già visto col Nobel cinese e con Pamouk che si
vince se agisci, detto in modo generico, nel sociale. Esseri come La
Capriolo, Vecchioni e De Gregori, che rendono offrono alla nostra
specie la speranza di essere portatori di un'anima sensibile, son
considerati di un livello secondario. Ora si vive di presente, di
reazione ad esso valutata dall'emotività. Chi va oltre come loro, è
grande, ma è solo.
Due giugno, ore dieci di mattina.
Ho appena terminato la passeggiata
nella “valle” di Marina Romea. Avrei potuto dire che è stata
lieve..... ma l'incontro con due umani ha annullato la bellezza che
secondo me emana da quell'aggettivo.
Dunque. Passeggiavo.....
e sulla destra, in lontananza, vedo un
gruppo di uccelli bianchi.
Se stanno volando si chiama stormo. Non
so se è corretto anche per quando riposano sull'acqua.
Ho la sensazione, ma non la certezza,
che l'ultimo gruppo che ho visto planare, sia rosa. Dopo poco passano
in direzione a me contraria due umani; un maschio e una femmina, con
l'atteggiamento di chi sta camminando in modo deciso, da qualche
chilometro. Li annuso con discrezione. Qualcosa in loro mi rende
diffidente, ma mi avvicino e chiedo se vengono da là, da dove stanno
quegli uccelli.
Dicono di si. Chiedo se sono i
fenicotteri e confermano. Sovrappensiero, ma ad alta voce, dico che
non resteranno in quel punto. Rispondono con aria di sufficienza, che
son li da due settimane. Avevo annusato giusto. Qualcosa in loro
manca e da questa assenza si libera nell'aria un odore che è quasi
una puzza. Mi si ferma la lingua. Annuso ancora in un crescendo di
diffidenza. Riesco a dire solo che voleranno vicino alla tale
fabbrica perché c'è qualcuno che si fa pagare per portare la gente
vicino con una barca a motore. Loro mi ri-guardano con sufficienza e
mi ripetono che i fenicotteri son li da due settimane.. mi arrendo.
Se ne vanno.
Chi pensa di aver capito guardando,
come han fatto loro, cosa perde?
Bastavano cinque minuti e guardare
sarebbe diventato osservare. Uno stormo è giunto sull'acqua
immobile. È rosa. Un altro, un attimo dopo, si fa stormo e va. Vanno
verso destra, in direzione di quella fabbrica, sempre.
Diventano bianchi qui, mangiando non
gamberetti ma un'altra minutaglia, per questo puoi distinguere chi è
appena arrivato da chi è presente da almeno una settimana.
Ecco. Vedere e osservare. Osservare ed
elaborare. I primi tre gradini che ben pochi percorrono. Sono in
salita, ma avvicinano alla meta. C'è comunque una fatica da
compiere, che se ti affidi ai sensi che notoriamente girano in tondo,
puoi evitare, ma ottieni ripetizione e non crescita.
Ed elaborare, il terzo gradino che ci
emancipa, deve essere affidato alla mente e al cuore.
La prima spiega quasi tutto e il
secondo, il cuore, crea un'armonia che....
E infatti, penso, anzi, mi lascio
andare a quel che mi ribolle dentro e “sento” che, in questo
paesaggio di pini acqua e vento, il fenicottero inconsapevole, si fa
adulto e parte di un paesaggio stupendo dal quale io, frammento di
quell'umanità distruttrice, mi sento escluso.
Passo sempre col piede leggero, per non
disturbare, per non “svegliarli” ala vista del carnivoro supremo.
Io so di non esserlo, ma come spiegarlo a quel paesaggio vivo e
riuscire a farne parte compiendo così uno dei miei destini?
Ma mi rinfranca la Volpe che non mi
teme e viene di notte, mangia qualcosa che ho preparato per lei e poi
si ferma, si siede, fiuta l'aria e, senza mai guardarmi negli occhi,
mi fa compagnia.
Io, seduto con una piccola luce che si
posa sulle pagine di un libro, deformato da una giacca a vento, nel
freddo della notte, ho atteso, solo, questo momento.
Sono commosso.
Sì, la natura che mi è madre e
assassina, non mi teme, e dalla compostezza elegante della volpe, me
lo fa capire.
E mentre pensavo queste cose, distratto
appunto dal pensiero che troppo spesso ci allontana dalla vita, torno
a me per via di un fruscio. La Volpe se n'è andata.
Devo crescere. Il pensiero, in certi
momenti ostacola il fluire da dentro e anche la vita. Devo lasciarmi
andare e forse ancora, come quell'unica volta un anno fa, si
avvicinerà e dolce e supremo accarezzarla ancora.