lunedì 5 marzo 2012

Tonino Guerra: "Polvere di Sole", prima parte

Giovedì della scorsa settimana. Primo pomeriggio. Parcheggio a Santarcangelo, attraverso la piazza. Suono un campanello che da le spalle al monumento dei caduti e salgo quaranta gradini. L’appartamento, posto al secondo piano, è stato sistemato velocemente. I problemi di salute di Tonino lo costringono a staccarsi momentaneamente da Pennabilli. Qui l’ospedale dista in linea d’aria circa duecento metri.

È steso a letto. La stanza piena della luce della piazza e di un cielo così azzurro da sembrare finto, contiene solo un letto matrimoniale, disegnato dal suo occupante e fatto di legno grezzo, e un cassettone con una grande tivù piatta che in fondo non guarda mai e mi piace pensare che da essa lui, a sua insaputa, è scrutato.

Mi siedo accanto. Al “come va” nemmeno risponde. Subito si inoltra in pensieri su “quell’ultimo racconto”, qual quadro, quella immagine … lo vedo fragile nel corpo e potente come sempre, nella mente e in quella sua capacità di andare ben oltre il pensiero.

Mi mostra l’unica copia che gli hanno portato del libro che uscirà ufficialmente in libreria il sette di marzo. Questa volta mi confida di essere contento. Il precedente gli lasciò la bocca amara per il titolo. Non sapeva quale sarebbe stato e “La valle del Kamasutra” proprio non gli piaceva. Questo: “Polvere di sole”, una citazione del suo celebre “Il Polverone”, è riuscito a concordarlo. Anche la copertina, che mostra un suo disegno, lo soddisfa. Parliamo un po’ di editori (tralascio questa parte che risulterebbe ovvia …) e sorrido della sua continua sorpresa alla constatazione che qualcuno desideri ancora, alle soglie dei novantadue anni che compirà il sedici di marzo, sì, che si desideri ancora pubblicarlo.

Mi dice di leggere il brano che si intitola “Andare è come venire” e nella stanza cala qualche minuto di silenzio. So che è trepidante. Ci tiene a sapere che ne penso. Mi ha confidato che la “sente” la cosa migliore che ha messo in questo libro. Riconosco la fonte, il pensiero, l’evoluzione che c’è dietro e rimpiango e maledico la freddezza quasi stupida degli editori. Era necessaria una nota esplicativa poiché si tratta un filo sottile che passa di mano in mano e inizia con Kawabata. Questo raffinato giapponese scrisse “La casa delle belle addormentate”. L’idea è la seguente. Un uomo anziano inizia a frequentare una casa gestita da una signora. In essa si può giacere con ragazze addormentate. È proibito svegliarle e approfittare di loro. Da qui, la trama. Nel 2004, un Marquez che non aveva più voglia di scrivere ma che era sempre tirato dalla giacca da chi sapeva che è una gallina dalle uova d’oro, diede alle stampe “Memoria delle mie puttane tristi”. Da questa idea di Kawabata, ecco la prima variazione. Un novantenne che decide di andare in una casa del genere e giace con una adolescente. Le età si fanno più estreme sia nell’uomo che nella donna che dorme. E cosa aspettarsi da un sudamericano che è celebre per una fantasia variopinta e spesso sfrenata ma sempre gloriosa? Ecco che dalla seconda notte il novantenne inizia ad arredare quella stanza spoglia. Pensa a quando lei si risveglierà la mattina seguente, di nuovo sola e quegli oggetti accoglienti che ha tolto da casa sua, oltre a riflettere il suo mondo e quindi la sua personalità, le daranno la sensazione di non essere in un postribolo, ma in una casa vera e con l’amante appena uscito.

Sappiamo Tonino e io, come è nato in Marquez questo amore per Kawabara. Amore così forte da aver richiesto quello scritto per liberarsi da una dipendenza che  ormai riempiva l’immaginazione delle sue notti e dei momenti liberi. Accadde a Roma, a casa di Francesco Rosi … e una volta scoperto il libro, questo grande colombiano che considera Tonino l’omero contadino, quindi distante geograficamente migliaia di chilometri ma con le sue medesime radici, tornò a casa con una suggestione forte che si fece libro.

Immagino un incontro irreale di anime che si propaga nel tempo mentre i corpi tra Roma, Bogotà e Pennabilli, non si contemplano più concretamente, e una medesima fonte, messa in gioco da Francesco Rosi, innesca una serie di variazione delle quali, prevedo, quella di Tonino sarà solo la seconda.

Torno a Tonino. Assaporo quel silenzio costruito dalla sua attesa, come se ancora, dopo anni di conferme eccellenti, ancora l’opera fosse in lui dubbio che deve confermarsi in una mente che rispetta.

Chiacchieriamo. Gli dico che è stato più delicato del giapponese e dell’ispanico e la delicatezza, nelle cose che riguardano la femminilità, lo ha sempre contraddistinto. È vero che nel poema “Il miele” troviamo un’affermazione che chiude un canto che può sembrare volgare, ma si ricordi che in quel momento le parole si fanno simbolo e la carnalità non si dissolve solo in chi di questa è schiavo.

Tonino sorride a Svetlana che mi porta il caffè. Due parole in russo. Non importa il senso. È la musica di quella lingua che lui assapora come un canto e mi dice che si sente un bambino che gioca, inesperto, con gli strumenti che Esenin, Pasternak e Puskin.

In lui tutto è proiettato in avanti, tutto è vita. Arriva il nipote di sua sorella. Si chiama Fabio de Luigi. È gioviale e porta una ventata di allegria che illumina lo sguardo di Tonino. Passa al dialetto con scioltezza, si ride. Mi metto in disparte e Fabio mi raggiunge per chiedermi come sta. “ieri pomeriggio era giù. Un brutto sogno. C’è voluto molto. Oggi va meglio”. Lui sorride e torna di fianco al letto. Dialogano. Arriva altra gente, me ne vado.

Sorrido anch’io mentre attraverso la piazza e allungo lo sguardo al suo balcone che è l’unico fiorito. Sì, in quella casa c’è vita. In lui, nella sua opera … c’è vita.

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