martedì 13 marzo 2012

Cesare Segre e un suo scritto dell10 luglio 2011

Oggi, 11 luglio, intendo dire due cosine sull'articolo di Cesare Segre uscito ieri sul Corriere della Sera.

Mi permetto prima una parentesi generale. Un fatterello accadutomi che si riallaccia allo scritto di ieri, riguardante l'articolo di di Stefano (vedi post del 10/07/2011).
Giorni fa, avevo notato una pubblicità su un quotidiano. Non ricordo quale. Riguardava la vendita, anzi, la svendita di alcuni libri, mi aveva attirato per la presenza fra essi di “Suite francese” di Irene Nemirovsky, testo che considero un capolavoro. La pubblicità aveva un marchio nero che recava una grande “vu”, iniziale della parola vintage. Mi son detto che l'editoria per l'ennesima volta aveva espresso un po' troppa fretta. La riscoperta della Nemirovsky è fresca di qualche anno e l'importanza della sua opera, notevolissima. Considerarla vintage lo trovavo affrettato, se posto in relazione alla recente riscoperta e sbagliato se posto in relazione alla qualità. La Recherche, non sarà mai vintage, per esempio. Mai un capolavoro lo è. Il capolavoro si situa fuori dal tempo. Il tempo è immobile. Noi ci muoviamo in esso. È a causa del nostro movimento che erroneamente pensiamo che sia il tempo a ...passare. Un po' come quando si credeva che fosse il sole a muoversi e invece siamo noi.... “Suite francese” sarà attuale sempre perché è nel tempo nel modo giusto. Immobile e per questo perennemente raggiungibile. E' la “roba” scadente che si allontana.

Curiosamente noto fra gli altri titoli, “Il cimitero di Praga”. Son sorpreso. Avevo la sensazione che fosse appena uscito. Che mi sia sbagliato? È possibile, son giustamente disattento nei riguardi delle cose che non mi interessano. L'attenzione è scattata perché mi sembra che stia accadendo qualcosa di vistosamente grossolano. Umberto Eco ovviamente non ne ha alcuna colpa. Le “manovre” commerciali l'editoria le fa senza pensare di consultare l'autore e, se ho ragione io, senza il minimo rispetto per i lettori. Mi accorgo di una specie di sottotitolo. Lo trascrivo e qui lo riporto: “I buoni libri migliorano col tempo”. Ora si tratta di valutare da quanto tempo è uscito il libro di Umberto Eco. Faccio una telefonata. A ricerca ultimata mi dicono che è stato pubblicato il 29 ottobre del 2010, son passati circa otto mesi....

Un essere pensante comprende che nonostante lo sforzo promozionale il libro è stato un flop.
L'editoria non si pone il problema. Considera il consumatore tipo come un essere che vive calato solo nel presente e cerca di rifilargli “I misteri di Praga” come robina vintage dando per scontato che sia un long seller.

A forza di considerar deficienti i lettori li perderanno poiché, per quanto sia vero che ci sia una tendenza a vivere solo nel presente, chi sceglie le arti come passione, il passato lo sonda.

Come collegarci all'articolo di di Stefano? Mah. Probabilmente ha quattordici anni e si sta appena aprendo al mondo. Lo si coglie dal fatto che ambisce ad inserire letteratura e poesia nei media. Si sa che i quattordicenni vengono da un'infanzia basata sulla tivù. Premetto che non ho preso alcuna informazione su di Stefano. È vero che dall'articolo, per alcuni aspetti si potrebbe pensare che quattordici anni non li ha ma, si ricordi che spesso i ragazzi giocano ad imitare i grandi.

E se poi fosse veramente una persona adulta? Eventualmente laureata eccetera eccetera? Allora sarebbe una tragedia. Una tragedia per lui. Oppure finge, e mescolato con altre essenze mai troppo dissimili nel metaforico pitale della “cul....tura” italiana, si sente un dio.

Veniamo a Cesare Segre.

L'articolo si intitola “Perché Dante e Rabelais non sono superiori a Manzoni e Kafka”.
Già il titolo....! secondo me non esiste un migliore, ma un gruppo di autori indiscutibilmente eccezionali. Ke Kafka sia per me un punto di riferimento vitale, essenziale, diventa un fattore soggettivo. Non è da meno sentirsi guidati interiormente da Melville o da Fitzgerald.
Non amo le graduatorie. Riguardano il calcio e in proposito ricordo (con indulgenza?) le tirature della poesia in Italia citate da di Stefano che si lamenta della loro esiguità. La tiratura fa il successo economico e basta. Il fatto che un libro di Moccia venda migliaia se non milioni di copie non fa nascere nella mente di nessuno un paragone per esempio fra lui e Kafka....

Ma in questa considerazione Segre non c'entra. Quel che infastidisce di quell' articolo è che manca il destinatario. Non è certo indirizzato al pubblico che compera il quotidiano e se mai esso desiderasse immergercisi, ne scapperebbe subito a a gambe levate...

Motivo principale: il linguaggio. È scritto in “profesorese”. Questa lingua usa un' analisi logica diversa da quella del linguaggio comune. In più non sa resistere all'utilizzo di qualche parolona. Esempi: cronòtopo, perifrasi, epistolografo, stilistica.

Caro Cesare Segre. Stai scrivendo su un QUO TI DIA NO!
“Questa carta igienica, questo water. Capito?”
“ Ora si fare Buana! Si badrone....!”

Sveglia!

Il mondo esiste ed è un pelino diverso da come ve lo immaginate!

E poi una pioggia di nomini: Spitzer, Contini, Bachtim, Rabelais, la Fontaine, Racine, Balzac, Flaubert, Hugo, Céline, Charles-Louis Philippe, Gadda, Dante, Pulci, Folengo, Swift, Petrarca, Ariosto, Leopardi, Manzoni, Kafka. Ventuno autori citati..... una follia. E le sembra possibile che uno che non sia un addetto ai lavori ci si raccapezzi? Io ho tre lauree e non mi ci perdo, ma trovo odioso agire così. Se volete conquistare uno spazietto nei quotidiani non sarebbe forse il caso di venire incontro a quel pubblico del quale lamentate l'assenza? È ovvio che scappa. Scappo anch'io..... in farmacia a curare una lieve orchite stile anguria.

Ebbri di se stessi. Comunicare dalla torre d'avorio ad una piazza vuota.

Bravo!

E frasi come “incidere sull'istituzione linguistica”, “problema delle linee (monolingue e plurilingue) della narrativa europea”, “nell'alternanza efficace di prosaicità e liricità con tutto un gioco di “sordina”, per esempio disindividualizzando il personaggio con l'uso dell'articolo indefinito o con la perifrasi....” mi fermo. Torno in farmacia....

Mah! Una curiosità: se lei mangia come scrive......

E poi. La lingua (e le sue regole) è lo strumento che supporta il significato di un'opera. Se lei continua, e non solo lei, a dare importanza solo al linguaggio e non a quel che l'artista ha da dire, mi sembra di poterla paragonare ad un commensale che non vuole mangiare l'arrosto, ma leccare gli schizzi della teglia dentro al forno, che il forno è lo strumento e di quello si accontenta.

Vede. Le porto l'esempio dell'opera do Picasso. Il periodo blu esprime un immenso dolore. Esiste anche un solo critico che si sia domandato di quale dolore si trattasse? Avesse cercato di capire l'uomo Picasso? No. Nessuno. E pensi, che scoprendo questo motivo si comprende perché, una volta terminato il periodo blu si sia dato quasi solo ed esclusivamente a virtuosismi tecnici......

Fitzgerald scrisse nei suoi taccuini una frasettina che lei eviterà senz'altro come la peste, e invece io l' ho trascritta a caratteri cubitali nel mio studio, e amo ripeterla ogni mattina per evitare il rischio di uscir dal seminato: “NON SI SCRIVE PER DIRE QUALCOSA. LO SI FA SOLO SE SI HA QUALCOSA DA DIRE”.

E allora.... cosa deduco dal suo articolo?
Ammetto di avere sentito già il suo nome ma non ho bisogno di fare ricerche per venire a sapere che lei è un indocente specializzato a spaccare il capello in quattro e che sta decidendo se è nato prima l'uovo o la gallina.


Domandina. Perché la gente come lei esiste?

lunedì 12 marzo 2012

Tonino Guerra; "polvere di sole", seconda parte.

È lunedì. Ho passato sabato e domenica con Tonino. Un filo di voce ormai, è tutto quello che sa dare. Steso nel letto grezzo da lui disegnato, con la luce soffusa di una tenda chiara fatta in collaborazione con l’ottimo Pascucci, il corpo quasi immobile reagisce. Un sorriso, un gesto minimo che è un saluto e fra pollice e indice metto una margherita appena colta. La mano è lievemente gonfia. Il dorso coperto da una candida garza e il filo trasparente della flebo.
Rapidamente rimaniamo da Soli e mi chiede con complicità del nuovo libro. Sussurra un “E allora? Cosa ne pensi?”. Ho raccontato nello scritto precedente la sua tensione quando mi ha proposto di leggere il brano intitolato “Andare è come venire” e ora c’è la curiosità sul resto. Prendo il libro e gli leggo la prima parte del brano numero uno che riporto qui sotto:
“Sono diventato uno di quei poveracci che vivono frugando nelle montagne dei rifiuti alla ricerca di qualcosa di necessario. Da alcuni anni ascolto uomini senza cultura ma guidati da una forza animale per sopravvivere. È soltanto questa gente sottomessa anche al vento che può darmi un segno dell’infanzia del mondo.
I miei interessi più precisi vanno a cercare notizie sul vuoto che circonda tutte le cose create e vuole rivolgerle nel loro silenzio in attesa di una voce che ricrei magari un altro tipo di universo….”
Dopo, gli dico, sospendendo la lettura:” Hai temuto di esser stato troppo astratto?”.
Mi ha chiesto di leggere il resto e sorridendo mi ha detto di si. Ha ancorato quei pensieri a qualcosa di concreto. ”La gente spesso, come i bambini non sa tornare dall’idea a ciò che l’ha creata. Io parto da una farfalla per esempio, e mi accade di dire solo quel che davanti a lei provo. Mi dimentico di parlare che è dalla farfalla che tutto si è mosso”. Mentre parlava, con gli occhi lucidi e pieni di quella vita interiore che in lui tuttora macina a tutto regime, sembrava che anche il corpo avesse dimenticato la malattia. Mentre parlava, la mano con la flebo si era alzata e aveva trovato la forza per disegnare il geroglifico di un gesto.
E poi, si è adagiata, gli occhi si son socchiusi e da qualche parte, con la volontà ha cercato le energie per continuare il dialogo. Un medico mi ha detto di lui che “quel corpo è tenuto insieme dalla mente. Una persona normale sarebbe già partita….”.
Consapevole che questo dialogare è la sua miglior medicina proseguo e gli dico che quel brano, quello che ho riportato sopra, rasenta la perfezione. Parole semplici, quotidiane, che usa il bottegaio e anche il signorone quando decide di non atteggiarsi. La parola spogliata è la necessità di chi ha un messaggio e non riesce a perdere tempo nei ricamini. Non si pensi a questo punto che io non ami per esempio il cosidetto barocco di Manganelli. Tutt’altro. Anche lui, come Tonino, aveva un linguaggio necessario all’immagine totalizzante nel quale sapeva risucchiarti.
Ma i versi di Tonino sono rapidi e terribilmente densi. La quasi totalità delle persone è abituata al dialogo ed esso presuppone la presenza dell’altro, che sia in video o dal vero. Così il linguaggio incarica di parte del significato, anche il corpo. Si può dire che siamo abituati a vedere e sentir parlare. Quando qualcuno ci offre semplicemente parole, senza mani che gorgheggiano nell’aria e occhi che ammiccano, incontriamo una dimensione che sentiamo come un’astrazione. Per questo la letteratura ha meno adepti. La fatica si fa più forte e leggere meno desiderabile. Nessuno ci avvisa che non si tratta di un gioco ma di pane per l’anima e oltre il resto le librerie pullulano di banalità. Gli editori rimediano cercando opere che abbiano azione, azione e azione. Ma così gli uomini non coltiveranno mai l’anima…. E poi penseranno pure che non esiste…
Quel brano è una pillola che va presa ogni mattina, fin quando le parole non si sono sciolte dentro di noi. E quel momento le “sentiamo”, e sentiamo di aver compiuto un piccolo gradino che porta a noi stessi e all’anima del mondo. Ricordo quel che mi accadde con Schumann. È fuor di discussione che era un genio. Me lo confermavano pianisti e direttori d’orchestra che meritavano la mia stima e anche menti che potevano anche sbagliare, ma che lo facevano in tutta onestà. Ascoltai la Kreisleriana e non ci capii assolutamente niente. Tutti i giorni, per un mese, mi concentrai con una media di tre e anche quattro ascolti giornalieri e poi è accaduto. La carne ha capito ed essa mi ha aperto le porte di quella sensibilità sublime. Troppo spesso diciamo che è stupida una cosa solo perché non la comprendiamo o perché non abbiamo voglia di fare quello sforzo che potrebbe rivelare. Si prova. Se è una cavolata dopo un po’ siamo irritati, svuotati tutto si ribella in noi, ma se qualcosa in noi vibra, anche in modo impercettibile, vale la pena di proseguire e quella vibrazione si farà senso.
Nel secondo brano, “L’orto”, trionfa una tale semplicità che al lettore affrettato può sembrare stupidità. Dice delle verità enormi. Piantare un seme e vederlo nascere, crescere e farsi frutto, è una vera emozione. Ci fa sentire la sacralità della vita. A me è capitato di non riuscire a mettere nel sugo le belle foglie di basilico che trionfavano di verde e di vita nel mio giardino. Non si vuole uccidere e divorare la bellezza. Finisce poi che si cammina nei prati con passo leggero per non disturbare l’erba, si parla a bassa voce nel bosco per non disturbare api e uccellini. A questo punto della metamorfosi, se ci domandiamo se siamo diventati ridicoli o veri, ci coglie la pietà per chi non ha colto l’opportunità di sentire una grande armonia che va oltre all’appagamento dei sensi e delle nostre ”acquisterecce” voglie.
Il brano intitolato “Morte di un giardino” piacerebbe tanto, lo so, a Paola Capriolo. Nel suo romanzo “Un uomo di carattere” tratta in fondo il medesimo argomento, ma il giardino di Paola non è destinato a rifiorire… è un peccato. Con quel cognome, ed essendo io uomo e lei donna ed avendo lei degli occhio scuri e intensi, mi vien sempre da pensarla come Bambi. E con una carezza della mente le direi che quel romanzo non è concluso, che immagino il giardino che rifiorisce rigoglioso perfetto ancora una volta, dopo anni, per la nostalgia di chi lo aveva amato e curato. Penso che nella sua opera il giardino sia lei e “L’uomo di carattere” quell’uomo immaginario che tiene in ordine il nostro io che si china sempre con fragilità alle intemperie.
“La parata di Fellini a Mosca”. Sorrido a Tonino e gli dico che qui ci voleva una bella nota. Si deve sapere cosa c’è dietro. Federico e Tonino dialogavano alla ricerca dell’idea per un film. Federico raccontò quella che si legge nel libro. Tonino immaginò una nave immensa, forse il Rex, che portava le ceneri di una grande cantante in alto mare. Era appena morta la Callas, l’impressione della sua fine era stata molto forte per loro e vinse in amicizia l’idea di Tonino. Per anni, Tonino, ricordando quell’irrealizzata parata, l’ha amata sempre di più e l’ha consegnata a questo libro perché non la si dimentichi e anch’io trovo che sia grandiosa.

“Gli scheletri seduti” è una storia semplice che ci fa comprendere cosa siano i libri di Tonino per un regista: una miniera di idee. Ricordo Wenders che allungava a Tonino il malloppo di carta che era il film “Così lontano così vicino”, quello, per intenderci, girato anche a Ferrara con Antonioni. Tonino lo guarda, lo legge e lo corregge e prova ne sia che l’idea della scenetta con la stupenda attrice portoghese la ritroviamo in Pavese (Le tre amiche) e anche nel libro “Cenere” di Tonino. Quando leggete il cartellone del film, di Tonino nemmeno l’ombra, per chi si accontenta di leggere e non pensarci un po’ su.
Una situazione simile la troviamo nel brani “Il Marecchia”. Vedere immmmmmediatamente!!! (è un ordine!) il film “La sorgente del fiume” che ha la regia di Anghelopulos, (al quale questo libro è dedicato oltre che per il giusto merito, anche per ricordare la sua recente e sciaguratissima dipartita), e meditare. In questo caso si sa che c’è lo zampino di Tonino, anche il cartellone ce lo dice, ma in un’epoca, che dura da troppi decenni, nella quale si pensa che il film sia solo del regista, mettere qualche sassolino nella scarpa e fare male a certe stupide abitudini mentali, mi piace … Uno sceneggiatore è in certi casi, più di quel che si pensa. Flaiano è stato la vera anima di Fellini per film come “Otto e mezzo”, “I vitelloni” e “La dolce vita”. Ci basti pensare che il termine vitellone grazie al film tutti pensano che sia riminese e invece è pescarese. Sta per” vudellone”, che sta per “budellone”, ovvero quella persona che passa la vita al bar a non far niente …
Nel film “La sorgente del fiume”, il ragionamento che Tonino fece a Theo quando era a Pennabilli per pensare quel film, è entrato addirittura nel titolo … si immagini quindi e si pensi, per cortesia, che molte idee di quel film sono opera di due menti e si dimentichi la curiosa frammentazione dei ruoli in soggetto, sceneggiatura e regia.
“Il Monastero verde” è un brano che amo poiché contiene una delicata fantasia quasi infinita. Tonino e Parajanov trovano un Monastero dell’anno mille “che forse non esiste”, “Tutti ne parlano in un modo diverso quasi si trattasse di differenti monasteri abbandonati e crollati”. Anche Borges, che Tonino considera irraggiungibile e ne so qualcosa io che non lo era … invidierebbe queste immagini semplici e indelebili. Scopriamo poi che nel Monastero che non c’è (so che Tonino ha ascoltato spesso e con gusto un certo disco di Bennato…) c’è una candela accesa. Qualcuno è appena andato via da un luogo irreale! E questo piacerebbe al matto di Tarkovskij che nel film “Nostalghia” consiglia all’artista russo di accenderne una e di tentare di attraversare una certa stupenda antica vasca in Toscana… Dico A Tonino che quella candela è la medesima del film che lui ha “Fatto” con Andreij. Conferma con un sorriso e mi dice che non gli piace pensare che è rimasta nella fanghiglia di quella vasca di fianco al corpo deceduto del russo. Immaginate ora, dopo aver visto ovviamente il film, il luogo sacro, che è un poco anche la stanza nella quale si realizzano i desideri che ci fa trovare un personaggio perfetto sempre di Tarkovskij, un angelo sofferto e senza ali, in “Stalker”. Ecco la stanza fulcro di “Stalker”, ecco la candela di “Nostalghia”, e Tonimo sorride contento.
Il libro non ci dice chi è Parajanov. Ci provo ora con un esempio:



Eccolo Parajanov. Se gli hanno dedicato un francobollo . . . si vede che qualcosa vale . . . almeno per la sua patria e sicuramente per il mondo dell’arte.
Ve lo definisco un po’ angelo e un po’ folletto e mi affido di nuovo alle immagini per chiarire, poiché in questo modo con un’evidenza palpabile agli occhi, che rendo anche vostra, che non sono l’unico, almeno per l’aspetto angelico, a pensarla così:



Questa è semplicemente la foto di un uomo che fa un salto che esprime forse voglia di vivere e gioia. Ha un po’ del Sileno, del fauno. E ora veniamo alla prossima immagine:



La foto è “storta” per scelta. Ho come l’impressione che dia ancor di più l’impressione del volo. Mi da anche idea di un “pezzo” della collezione di un entomologo. Un Parajanov, farfalla rarissima, oserei dire unica, infilzato ad uno spillo e attaccato alla teca-muro. E penso questo perché so che il poveretto ha dovuto patire anche la galera dalla quale oltre il resto uscì in grazia di una furbata socratica di Tonino.
Pensierino. Ci sarà un motivo se quel salto di gioia è stato eternato dal bronzo…
E ora un’altra foto:



Mi si conceda di guidarvi in un’osservazione. Io non so chi abbia scattato questa foto, ma mi piace moltissimo. All’inizio in essa “sentivo” un equilibrio, che mi faceva adagiare lo sguardo con un armonia inspiegabile ma …
Poi ho ricordato la Stanza della Segnatura e un certo affresco di Raffaello che si chiama “La disputa” e che potete vedere in fondo al brano perché non ne ha voluto sapere di essere posizionata al posto giusto. Ragioniamo; l’alone perfettamente circolare intorno a Cristo cala e si fa più piccolo nel medaglione d’oro dello spirito Santo e poi si concentra nell’ostensorio che è al livello della vita terrena. Guardate ora il cerchio delle persone intorno all’altare. Esso coinvolge anche chi guarda che è quindi reso partecipe del dono divino. Sopra al cerchio degli umani vivi, ecco gli umano santificati e anche di questo semicerchio che ci mostra Raffaello è il caso che noi aggiungiamo la parte mancante che sta proprio sopra la nostra testa. Fra Dio che ha un semicerchio di angeli anche questo che si fa cerchio sopra di noi, fra Dio dicevo e i santi, sta chi è più santo dei santi ma meno santo di dio e cioè Gesù, Maria e san Giovanni. Ecco un gioco di cerchi che è un capolavoro di equilibrio che ci colpisce anche se non lo razionalizziamo come ho appena fatto per voi. Il fulcro. Qualcosa che scende da Dio e entra nel cerchio dei viventi facendosi percepibile ai sensi in forma di ostia, era il compito iconografico assai arduo che Raffaello risolse con destrezza unica.
Torniamo ora alla foto di “nonsochi”: osservate il piatto col pane, il pugno di Tarkovskij posto non casualmente sullo spigolo del tavolo a formare un asse col viso di donna che appare quasi fantasmico e senza corpo. Il senso di sacralità è reso posto come protagonista in mezzo alla tavola, dalle ciotole che presuppongono altri commensali oltre ai due che vediamo e dal candore alternato al buio. Perché candore e buio. Non mi stancherò mai di ricordare che bianco (blanco, black ecc) ha la medesima radice antichissima di nero e sta per assenza di colore. I colori, per la psiche più profonda, quella più antica e a contatto con l’io del mondo, sono quelli posti fra la luce che è il bianco e il buio che è il nero. In essi sta lo spazio della vita. E il bianco si fa simbolicamente inizio mentre il nero che è detto anche tenebra, si fa mistero dell’oltre vita. Torniamo a Parajanov. Tarkovskij, il regista in assoluto unico e inarrivabile della storia del cinema, se dedicava tempo a Parajanov era … perché ne valeva la pena.
Bergman disse che Tarkovskij era il migliore. Lui aveva tentato la poesia e l’aveva forse raggiunta qualche volta. Tarkovskij era quello che l’aveva raggiunta costantemente, sempre. E una parola così elogiativa spesa da Bergman che valeva tanto, merita fiducia se mai la mia ….
Ora. Tonino e Parajanov per me son due folletti, due fauni, due esseri mezzo umani e mezzo natura allo stato puro. Per un soggetto che Tonino conosce e che per ora è solo un corto sgangherato, ho immaginato che una ragazza da favola (e non nel senso di bella, ma di qualcosa di più) che porta un artista in crisi di idee davanti ad una finestra. Si sporgono e vedono Tonino che dorme nel letto. È pomeriggio. Un riccio e una tartaruga camminano per terra e una volpe, forse la mia che mi dorme in macchina e mangia alla ciotola del cane e che Tonino mi invidia, sì, forse la mia volpe, dorme accoccolata sulla coperta il suo sonno tranquillo come se fosse un gattone domestico. Ho ricordato sabato pomeriggio a Tonino questa immagine. Ha detto “mi piace” e poi, dopo essersi soffermato un attimo e non per prender fiato, ha aggiunto “e Parajanov lo era più di tutti noi”. Mi son sentito lusingato dal fatto di esser stato incluso fra i folletti e abbiamo parlato d’altro.
Ecco la ricchezza del libro di Tonino, e ho sviscerato solo qualche cosuccia. Lora, la moglie, ama particolarmente i brani “Andare è come venire” e “Le due giovani giapponesi”. Mi ha detto: “Tonino è così orientale, mi ha sempre stupito questo di lui”. Ho risposto. “Lui non è l’orientale che si potrebbe incontrare in un viaggio, ma l’orientale come lo si immagina”. Lora ha sorriso e mi ha detto “E’ vero”.
Ho parlato con la volpe e mi ha concesso di allegare anche la sua foto …. E nel portabagagli della mia macchina. Le lascio spesso un finestrino un po’ giù. Le bastano una decina di centimetri. Lì sta calda, e la mattina mi siedo accanto a lei e le parlo e l’accarezzo. Se non ha mangiato la sera, prima di andare a dormire, dalla ciotola del cane, le offro qualcosa che, con una compostezza da gran dam, a mangia senza fretta. Le volpi non sono lisce come le angoscianti pellicce, ma lievemente ruvide e con uno sguardo intenso come un umano non sa dare.
Sicuramente in questo scritto c’è qualche errore. Sono un po’ giù. Non ho voglia di limare, di correggere. Tonino ora non parla quasi più. È un corpo timido e uno sguardo che mi cerca e ha paura …
ciao



lunedì 5 marzo 2012

Tonino Guerra: "Polvere di Sole", prima parte

Giovedì della scorsa settimana. Primo pomeriggio. Parcheggio a Santarcangelo, attraverso la piazza. Suono un campanello che da le spalle al monumento dei caduti e salgo quaranta gradini. L’appartamento, posto al secondo piano, è stato sistemato velocemente. I problemi di salute di Tonino lo costringono a staccarsi momentaneamente da Pennabilli. Qui l’ospedale dista in linea d’aria circa duecento metri.

È steso a letto. La stanza piena della luce della piazza e di un cielo così azzurro da sembrare finto, contiene solo un letto matrimoniale, disegnato dal suo occupante e fatto di legno grezzo, e un cassettone con una grande tivù piatta che in fondo non guarda mai e mi piace pensare che da essa lui, a sua insaputa, è scrutato.

Mi siedo accanto. Al “come va” nemmeno risponde. Subito si inoltra in pensieri su “quell’ultimo racconto”, qual quadro, quella immagine … lo vedo fragile nel corpo e potente come sempre, nella mente e in quella sua capacità di andare ben oltre il pensiero.

Mi mostra l’unica copia che gli hanno portato del libro che uscirà ufficialmente in libreria il sette di marzo. Questa volta mi confida di essere contento. Il precedente gli lasciò la bocca amara per il titolo. Non sapeva quale sarebbe stato e “La valle del Kamasutra” proprio non gli piaceva. Questo: “Polvere di sole”, una citazione del suo celebre “Il Polverone”, è riuscito a concordarlo. Anche la copertina, che mostra un suo disegno, lo soddisfa. Parliamo un po’ di editori (tralascio questa parte che risulterebbe ovvia …) e sorrido della sua continua sorpresa alla constatazione che qualcuno desideri ancora, alle soglie dei novantadue anni che compirà il sedici di marzo, sì, che si desideri ancora pubblicarlo.

Mi dice di leggere il brano che si intitola “Andare è come venire” e nella stanza cala qualche minuto di silenzio. So che è trepidante. Ci tiene a sapere che ne penso. Mi ha confidato che la “sente” la cosa migliore che ha messo in questo libro. Riconosco la fonte, il pensiero, l’evoluzione che c’è dietro e rimpiango e maledico la freddezza quasi stupida degli editori. Era necessaria una nota esplicativa poiché si tratta un filo sottile che passa di mano in mano e inizia con Kawabata. Questo raffinato giapponese scrisse “La casa delle belle addormentate”. L’idea è la seguente. Un uomo anziano inizia a frequentare una casa gestita da una signora. In essa si può giacere con ragazze addormentate. È proibito svegliarle e approfittare di loro. Da qui, la trama. Nel 2004, un Marquez che non aveva più voglia di scrivere ma che era sempre tirato dalla giacca da chi sapeva che è una gallina dalle uova d’oro, diede alle stampe “Memoria delle mie puttane tristi”. Da questa idea di Kawabata, ecco la prima variazione. Un novantenne che decide di andare in una casa del genere e giace con una adolescente. Le età si fanno più estreme sia nell’uomo che nella donna che dorme. E cosa aspettarsi da un sudamericano che è celebre per una fantasia variopinta e spesso sfrenata ma sempre gloriosa? Ecco che dalla seconda notte il novantenne inizia ad arredare quella stanza spoglia. Pensa a quando lei si risveglierà la mattina seguente, di nuovo sola e quegli oggetti accoglienti che ha tolto da casa sua, oltre a riflettere il suo mondo e quindi la sua personalità, le daranno la sensazione di non essere in un postribolo, ma in una casa vera e con l’amante appena uscito.

Sappiamo Tonino e io, come è nato in Marquez questo amore per Kawabara. Amore così forte da aver richiesto quello scritto per liberarsi da una dipendenza che  ormai riempiva l’immaginazione delle sue notti e dei momenti liberi. Accadde a Roma, a casa di Francesco Rosi … e una volta scoperto il libro, questo grande colombiano che considera Tonino l’omero contadino, quindi distante geograficamente migliaia di chilometri ma con le sue medesime radici, tornò a casa con una suggestione forte che si fece libro.

Immagino un incontro irreale di anime che si propaga nel tempo mentre i corpi tra Roma, Bogotà e Pennabilli, non si contemplano più concretamente, e una medesima fonte, messa in gioco da Francesco Rosi, innesca una serie di variazione delle quali, prevedo, quella di Tonino sarà solo la seconda.

Torno a Tonino. Assaporo quel silenzio costruito dalla sua attesa, come se ancora, dopo anni di conferme eccellenti, ancora l’opera fosse in lui dubbio che deve confermarsi in una mente che rispetta.

Chiacchieriamo. Gli dico che è stato più delicato del giapponese e dell’ispanico e la delicatezza, nelle cose che riguardano la femminilità, lo ha sempre contraddistinto. È vero che nel poema “Il miele” troviamo un’affermazione che chiude un canto che può sembrare volgare, ma si ricordi che in quel momento le parole si fanno simbolo e la carnalità non si dissolve solo in chi di questa è schiavo.

Tonino sorride a Svetlana che mi porta il caffè. Due parole in russo. Non importa il senso. È la musica di quella lingua che lui assapora come un canto e mi dice che si sente un bambino che gioca, inesperto, con gli strumenti che Esenin, Pasternak e Puskin.

In lui tutto è proiettato in avanti, tutto è vita. Arriva il nipote di sua sorella. Si chiama Fabio de Luigi. È gioviale e porta una ventata di allegria che illumina lo sguardo di Tonino. Passa al dialetto con scioltezza, si ride. Mi metto in disparte e Fabio mi raggiunge per chiedermi come sta. “ieri pomeriggio era giù. Un brutto sogno. C’è voluto molto. Oggi va meglio”. Lui sorride e torna di fianco al letto. Dialogano. Arriva altra gente, me ne vado.

Sorrido anch’io mentre attraverso la piazza e allungo lo sguardo al suo balcone che è l’unico fiorito. Sì, in quella casa c’è vita. In lui, nella sua opera … c’è vita.