Sei di mattina. Sono
sveglio da un po' e giro in macchina. Niente musica, non sa andare
oltre le emozioni, che sia Beethoven o Gigi d'Alessio, poco cambia.
Emozioni e basta, come se oltre ad esse non ci fosse più nulla. E
l'occhio che sa vedere il cielo terso che vola all'infinito e si fa
infinito, in quella nebbia dei sensi nemmeno immagini possa esistere.
Niente parole. La mia
realtà, l'io non sa più che farsene. Con esse posso tradurre una
sensazione che non parte dai cinque sensi e approda a qualcosa che
nel vocabolario non esiste? E ha senso coniare nuovi vocaboli e
dotarli di un nuovo significato se esso non è condivisibile?
Mi fermo dopo ore di
paesaggio, il cane che dormiva sul sedile posteriore, si è svegliato
e merita la passeggiata. Da lei, si chiama Philly, imparo quel che
ormai sempre dimentico; il piacere di avere un corpo e di sentire la
sua elasticità. La sua immersione nel mondo degli oggetti e delle
altre forme viventi, per mezzo dei cinque sensori, è interessante,
ma non dimentico mai che della realtà quei sensi mi mostrano solo
una parte. Questo modo di conoscere non devo sentirlo come l'unico, e
l'intelligenza che poi riordina le sensazioni, sembra esaltante, ma è
poca cosa … mai dimenticarlo. Ma per i cani è diverso … da loro
ho finalmente compreso anche, cos'è il tempo.
La Romagna spesso ha paesi
con nomi che fanno sorridere. Un giorno mi ritrovai davanti ad un
cartello che portava la scritta “Grattacoppa”. Pensai ad uno
scherzo, come quella volta che nel bresciano, in montagna, sotto il
nome di un paesino che non ricordo più, lessi in caratteri ben
stampati, “paese denuclearizzato e deterronizzato”. Un negoziante
del posto mi disse che il cartello resisteva ma non rappresentava la
verità, invece a Grattacoppa mi dissero che il nome sembra sia
dovuto al fatto che in un tempo ormai senza tempo, vi abbiano abitato degli zingari. Questi si grattavano spesso i capelli sul collo e da qui
il nome. Bagnacavallo ha una storia meno comica, lo è il nome perché
si offre a fantasie giocose.
Il levriero scende e il
naso, con leggere torsioni, esprime diffidenza. Si inoltra nell'aria
immobile ma satura di odori che io non sento, e mi lascio guidare. So
che esiste una piazza molto bella; Piazza Nuova. Sembra sia del
settecento. Così almeno mi confida un cartello, e in Italia, per l'Italia, quell'epoca è vecchio e non antico. Mi inoltro per portici
silenziosi. Cielo grigio che fra le arcate. Un leggero rumore di
pioggia … due pezzi di plastica trasparente, si contorcono e
avanzano per la piazza e sembrava...sembrava....
Nessuno per strada. Nei
paesini è metafisica l'alba.
Nelle grandi città, che
si tratti di Milano o New York, nulla cambia, di gente ne vedi
sempre, ma di mattino presto son tutti isolati in un guscio di grigia
fretta, e sembra che vadano verso il nulla fingendo impegni per non
arrendersi a vite senza direzione. Sono in sé stessi. Gli occhi
rivolti in dentro, e immagino che si veda solo il bianco. Ti passano
vicino, ti sfiorano, tu non esisti per loro e loro sono per me solo il
venticello leggero del loro passaggio.
All'alba i colori sono
indecisi. In questa alba, essendo già accaduta, il cielo di piombo
chiaro appiattisce tutto, e la realtà sembra più vera, senza
compromessi, senza alcuna pietà.
Ho scarpe con la scuola di
gomma e sono silenzioso. Nella piazza principale, alla destra del
campanile, leggo i cartelli dei morti. Passa un vecchio in
bicicletta. Si ferma e li legge. Penso non mi abbia visto perché
osserva ben bene un cartellone e fa il gesto dell'ombrello dicendo
“tiè!”. Quel verso mi fa sorridere. Ecco il romagnolo e la
morte, la morte degli altri, e quel farla franca in fondo solo per
qualche attimo. Riparte e lo inghiotte un portico. Di nuovo silenzio
e riappare rumore di pioggia. Ormai lo so e cerco per terra. Varie
carte camminano e sembra per un attimo che vengano tutte verso di me.
Sono il nemico? Già il fatto di essere, di esistere, mi fa sorridere … e le
cartacce, in un mulinello aggraziato, si incamminano in tutt'altra
direzione.
Fra i cartelli funebri ne
scorgo uno con un cognome comune da queste parti. “Guerra”, il
pensiero va ad un caro amico che se ne andò all'equinozio di
primavera. Poi ripenso a quel cognome. Questa gente gioviale che fu
soldati di ventura … esiste anche il cognome Troncossi … era
un'arma che … e Guerra, Guerrini, Guerrieri … E Sforza per la
forza, così si dice, con la quale lanciò una zappa in direzione dei
soldati di Giovanni Acuto. E Alberico da Barbiano e tanti altri. Ora
aleggia una sensazione non di pace, in Romagna, ma di tregua.
L'ultimo soldato di ventura, di Predappio, è ancora amato
segretamente e pubblicamente odiato, e si sa che l'odio è l'ultimo
legame che si può concedere a colui al quale è negato l'amore …
Ma non puoi dirlo al romagnolo verace, questo comunista in Mercedes e
Rolex, questo paradosso che dà il meglio di sé a tavola o nei
racconti al bar con gli amici, racconti irreali, irriverenti,
bugiardi e non creduti, ma che permettono a chiunque di ridisegnare
la mediocrità a colori vivaci. E penso a “I vitelloni” che non
sono di Fellini, ma di Flajano. Ne è prova proprio il titolo.
Vitellone viene da vudellone, che ai primi del novecento a Pescara,
identificava il giovane sfaccendato che stava al bar, che aveva
l'epica del biliardo, della conquista delle sartine e delle
luculliane mangiate.
Ora, nel silenzio plumbeo,
ho per un attimo la sensazione che in un punto del cielo qualcosa si
faccia denso e luminoso. Un pensiero … qualcosa di inatteso … o
il sole che non riesce a indorare e quindi a rendere sensuale quel
che è concesso agli occhi.
Torna per reazione a
quello sforzo, un'atmosfera di buio che dura un attimo, e diventa un
controluce affascinante.
Mi inoltro per le vie. Qui
il tempo non lo si lascia agire. L'intonaco, artificio inelegante,
appena steso, se di grana fine e ben verniciato, rende finto l'antico
e dona l'idea di un presente posticcio come certi uomini che,
ottantenni ma ancora audaci, osano sfoggiare un parrucchino nero.
Queste case, quando il
tempo le sminuzza, diventano sporche. Il loro sgretolarsi sa di
vecchiume da immondizia, senza una storia da raccontare. Qui era
terra di mattone vivo. E solo nel campanile della piazza l'ho visto,
minuziosamente cesellato da anni di esistenza. Ricordo certi paesi
dell'Andalusia con vecchie case in arenaria. Questo materiale salta
una tappa. Immediatamente fa sembrare antichissimo e vissuto,
l'edificio che lo indossa, che forse ha appena trecento anni ma ne
dimostra mille, e in questa sensazione l'Europeo ama cullarsi.
L'antico che si vede, che si tocca, è la tana della stirpe, è una
sensazione di immortalità che ama.
Nelle metropoli, tranne
Roma, la t cade e rimane immoralità, e non è colpa loro. Un
quartiere antico, qualche antico albero, sono un'esca che ci
restituisce l'illusione di un senso profondo. Io non sono solo io, ma
un noi del quale io rappresento solo il momento presente … e nella
consapevolezza di questo flusso ogni gesto diviene responsabile
perché il passo falso è vergogna di tutti coloro che son già stati
e che sarò. Per questo la grande città, che è solo presente nei
suoi edifici, che sanno esprimere solo funzionalità o opulenza, ma
non ricordo, diventa il luogo in cui tutto è possibile, il luogo in
cui uccidere e respirare son la medesima cosa, il medesimo gesto
senza senso. Il solo presente, in noi, porta ad un assurdo più
assurdo di quell'assurdo che si vive quando ci domina il senso di un
tempo enorme, che parte da un passato indefinibile ma almeno
affascinante, e si inoltra in un futuro che fa paura perché lo vive
la specie e non l'io, e questa è la seconda illusione, la
distorsione di chi crede nel passato, meno deleteria per chi ha solo
il presente per pensare, per pensarsi.
Bagnacavallo è bella in
fondo, ma non mi piace. Da qualche parte, dietro ad uno di questi
muri, so esistere una Melancholia di Durer … questo mi fa
sorridere; un po' come trovare un frigorifero al polo nord … e
decido di cercare la Piazza Nuova che vidi con l'amico che si
chiamava Guerra. Vi fece mettere per Natale una enorme cometa,
simpatica, inusuale. Attraverso una via anonima, che si vergogna di
mostrarsi, vedo il muro di mattoni lievemente corrosi che ne è lo
scrigno. Ecco il cancello … la piazza è chiusa … e guardando fra
le sbarre, mentre osservo le arcate interne di quell'ovale veramente
aggraziato, di nuovo l'opalescenza appare in cielo. Ne sono
abbagliato per un attimo e quando la vista mi riconsegna agli oggetti
mi accorgo che dentro la piazza c'è una ragazza leggera leggera.
Viene verso di me. Ha un passo che … forse fa danza … perché
sembra senza peso, senza sforzo … sembra che quella medesima brezza
che rendeva vive le cartacce ora la guidi verso di me. Sorride. Le
dico che sembra l'abbiano rinchiusa. Mi presento e le offro la mano.
Dico il mio nome e lei sorridendo dice di essere mia paesana … si
chiama Zeit … e Zeit vuol dire Tempo, solo che in italiano è
maschile e per me … è un femminile quasi oltre ogni dimensione. Mi
dice che si, Lei vive rinchiusa li dentro e come posso vedere, solo
li e nella torre in centro, il tempo sgretola e ricama. “Ma puoi
uscire?”
“certo, se qualcuno come
te riesce a vedermi, allora esisto. Non ti faccio paura?”
“No. Non più, penso
ormai di conoscerti”.
“Vieni che ti mostro una
cosa” …. attraversa le sbarre di legno come se non esistessero e
ci incamminiamo di nuovo verso la piazza. La prendo in giro e le
rammento che ci sono vetrine di negozi e lei, che si presenta come
femminile e bellissima, di fatto le ignora … questo dimostra che il
suo aspetto è un travestimento per sedurmi, per riportarmi a credere
in lei … sorride ma senza sorriso, si sente smascherata … ed
eccoci di nuovo ai cartelli funebri. Me ne mostra uno che mi era
sfuggito. A cinquant'anni dalla morte, con fotografia, un uomo,
deceduto il 19 aprile del 1966 …. i famigliari … dopo
cinquant'anni … mai avevo letto qualcosa di simile.
E come in un'allucinazione
mi accorgo che non si tratta di un foglio di carta coi bordi listati
a lutto, ma è di marmo decrepito e potente. Anche gli altri fogli
non son fogli ma lapidi, l'atmosfera di assurdo controluce che riduce
le sagome a profili scuri, mi abbaglia, mi giro nella piazza e mi
accorgo che ovunque, sulle facciate delle case, della torre, delle
chiese, ovunque sono lapidi. Non più finestre, perché anche gli
scuroni … e la pavimentazione della piazza, lapidi con nomi e date
e foto che mi guardano con insistenza perché se li guardo negli
occhi allora per quell'attimo penso a loro ed esistono … mi prendo
la testa fra le mani, mi sembra di impazzire. Urlo urlo urlooooooo! E
sento un rumore di crollo. Torno a guardare. La piazza si sta
offuscando di polvere. Tutte le lapidi, per la forza dirompente del
mio grido, come un immenso castello di carte, stanno crollando. Il
frastuono è insopportabile … ma liberatorio … e mi sveglio su
una sedia della piazza vuota, col levriero che mi ha delicatamente
leccato una mano, stanco dell'attesa di questo sonno improvviso.
Guardo l'ora, è durato un attimo. Torno verso i cartelli funebri …
eccolo … dopo cinquant'anni che chiedono di ricordare … miliardi
di persone mi si moltiplicano davanti. Persone che non esistono più
e che ripetono quel grido di carta … mi incammino verso la macchina
e una canzoncina mi si sveglia in testa e come una brezza montana mi
libera del peso di quell'incubo.
Stavolta parto davvero
con un vento leggero
che mi soffia alle
spalle...
Ecco la macchina. Sale il
levriero, mi siedo al posto guida e
canticchio quelle parole
di un poeta milanese degno del Nobel …
e una voce sottile e
magnifica che aleggia nella macchina prosegue
tu dormi bene il tuo sonno
dove vado lo sanno
solo le stelle …
E' lei, ma non è qui …
anzi è qui invece ma impalpabile si è sciolta in me
e ora parto davvero
con questo vento leggero
e dove vado lo sanno
...solo le stelle.
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