BIANCA
Di Liliana
Casadei
Ricordo che
ero stanca quella sera, di una stanchezza ingestibile. Dormii per
tutto il tempo che il treno impiegò per arrivare ad Modena.
Il treno di
mezzanotte.
Quanto tempo
dall'ultima volta in cui ci ero salita! Immagino spesso una
situazione surreale ... certi treni rimangono fermi ad aspettarti.
Sanno che tornerai e non se ne vanno.
Ero salita
con un po' di anticipo sulla partenza e il sonno mi aveva
completamente annebbiato.
Mi svegliai
poco prima della stazione d'arrivo, per caso.
Misi in
fretta la giacca, raccolsi le mie cose buttandole alla rinfusa dentro
la borsa e,
avviandomi
all'uscita sentii una voce chiamarmi.
Mi girai,
ancora mezzo addormentata. Una ragazza bassa coi capelli ricci, di un
rosso che sembrava bordeaux, mi stava chiamando.
"Mi
aiuti a scendere dal treno?"
Feci cenno
di sì, notando nei suoi occhi una specie di disperazione benevola.
Mi fece
sentire indispensabile, in quell'attimo.
Pensai
quindi che fosse inevitabile prestarle soccorso.
Scendemmo a
braccetto e notai immediatamente un difetto nel piede destro.
Lo teneva
arcuato su un lato e non riusciva ad appoggiarlo.
Una volta
toccato terra, mi chiese di proseguire e di accompagnarla fino alle
scale. Non esitai. Non avevo altra scelta.
La richiesta
di aiuto continuò fin sulla strada e poi ancora.
Percorsi a
braccetto con quella ragazza tutto il tragitto che la conduceva a
casa.
Non la
abbandonai.
Mentre si
procedeva, assai lentamente, le dissi solo che ero stanca e le
domandai quanto distasse il punto d'arrivo.
Non distava
molto.
Non mi
guardava in faccia. La sua timidezza si scontrava con quella
sfacciata richiesta di aiuto.
Mi nominò
sua madre.
Mi disse che
era anziana e che la stava aspettando a casa.
Era una
bella immagine ... per una fredda sera di dicembre.
La salutai.
Ritornai a
Bologna dopo qualche settimana. Primo vagone. C'era lei. Vidi i suoi
lunghi capelli rossi, ma finsi di non averla notata.
Mi misi a
sedere qualche sedile poco più in là.
Parlavo al
telefono.
E poi di
nuovo mi chiese quell'aiuto, come se non ci fosse nessun altro a cui
rivolgersi.
Finsi
disinvoltura nell'accettarlo, ma stavo fingendo.
Avrei voluto
andare via subito, di corsa, come forse avrebbe fatto chiunque.
Correre in
macchina e scappare via. A casa. In qualunque posto. Non più lì. Ma
dormire, credo.
La condussi
di nuovo fino a casa, dimenticando la stanchezza della volta
precedente. Pensai che fosse fin troppo vicina la sua abitazione per
negarle quell'aiuto. Provai biasimo per la mia pigrizia. Scherzammo.
Notai dello strabismo nel suo sguardo.
Non c'era
vergogna in lei, ma la piena accettazione della sua condizione.
E poi per
più di un mese non presi più il treno di mezzanotte e mezza, in
partenza dal binario 14 della stazione di Bologna.
Accade una
terza volta.
Decisa,
quasi crudelmente, a non sedermi nel primo vagone dove di certo
l'avrei trovata, mi allontanai dalla testa del treno.
Ero certa
che qualcuno si sarebbe preso cura di lei, e con questa scusa che era
acqua sporca, lavavo la coscienza.
In fondo,
come faceva ogni sera in cui io non c'ero?
Non potevo
caricarmi di quella responsabilità. Il suo dolore non apparteneva a
me e iniziavo a credere che appartenesse ad ognuno come un dono ed un
fardello, da cui nessuno avrebbe potuto salvare l'altro.
Era il gioco
della vita. E nel frattempo questi ragionamenti da filosofa da due
soldi mi facevano sentire superficiale.
L'avrei
evitata senza far notare la mia presenza e per tutto il tragitto mi
dimenticai, o finsi di dimenticare, della rossa del primo vagone.
Una volta
scesa. Percorsi i pochi passi che mi dividevano dal sottopassaggio.
Scesi velocemente le scale ... ed eccola. Ferma in cima alla rampa
opposta che chiedeva aiuto. La diffidenza delle persone, abili nel
fuggire dalla sconosciuta aggrappata alla ringhiera, mi spinsero a
correrle incontro.
"Ci
conosciamo già." le dissi
Lei rise,
perché mi aveva riconosciuto.
Sentendola
aggrappata al mio braccio, ancora, per la terza volta, ebbi in un
lampo la sensazione di conoscerla bene.
Mi guardò e
rise.
Le chiesi
che ci faceva sempre a quell'ora sul treno.
Mi disse che
lavorava per una rivista e che si occupava della rubrica dedicata al
cinema.
La cosa mi
incuriosì e il dialogo scivolò da solo, su tutti i film appena
visti al cinema.
Li aveva
visti tutti!
Su uno in
particolare ci soffermammo. Il film raccontava della storia d'amore
tra un professore universitario e una sua allieva fuoricorso.
Mi confessò
di essere stata colpita da quella trama personalmente per aver
vissuto una situazione simile in cui però, il professore si era
rifiutato di cedere alla passione per una sorta di conformità alla
professione. Mi disse che spesso quegli innamoramenti nascono dalla
difficoltà di elaborare eventi del passato, spesso legati a
problematiche familiari. Nel film era così e pensai che lo fosse
anche per lei, ma che fosse stata meno fortunata della bella
protagonista, poiché il professore non aveva ricambiato quel
sentimento.
E poi mi
stupì.
Mi stupiva
sempre. Lo aveva fatto fin dall'inizio.
Quel
professore era attualmente il suo fidanzato, ma quel rifiuto iniziale
l'aveva obbligata ad affrontare i vecchi fantasmi per vivere quella
relazione come tale e non come una sorta di compensazione. Decisi di
crederle. Perché non avrei dovuto? Cosa c'è di più bello
della verità degli sconosciuti? Non ti devono nulla e tu non
devi nulla a loro.
Camminammo e
mi parlò di psicologia, di una cena accaduta a Bologna quella sera
stessa e di un incontro casuale fatto fuori dal ristorante.
Camminammo e
mi piacque tanto ascoltarla.
Era fine
febbraio e l'inverno sembrava aver ceduto il passo precocemente alla
primavera, ammaliando alberi e bulbi.
La salutai
come si saluta una persona che si conosce, ma di cui si deve
ammettere a se stessi che non si sa molto.
Me ne andai
pensando di averle portato via qualcosa e questa sensazione mi
sfuggiva, e di essere un po' meno sconosciute.
Di me non le
avevo detto nulla, perché ... di me non dico quasi mai nulla.
Il giorno
dopo cercai la rivista. Non trovai nessuna rubrica sul cinema. Si
trattava di una guida al benessere. Sperai di avere capito male il
nome e stavo già dubitando delle parole di una donna che, mio
malgrado, non era più una sconosciuta.
Mi aveva
detto di essere nata sotto il segno dell'ariete e di avere
quarant'anni.
Salutandola
avrei voluto sapere il suo nome per ostentare quella familiarità
che, di lì a poco avrei certamente detestato.
Decisi di
chiamarla Bianca.
Bianca e il
suo fidanzato professore, la madre a casa ad aspettarla ogni sera,
una rivista inesistente, un piede fallato e l'abitudine, certa come
tutte le abitudini, di tornare col treno di mezzanotte e mezza al
binario 14 della stazione di Bologna.
Liliana
Casadei ha scritto questo racconto. Me l'ha inviato via mail e mi ha
chiesto cosa ne penso. Lo trovo buono lo considero la "cosa"
migliore che ha scritto.
Gliel'ho
detto e poi le ho consigliato di meditarci sopra. I motivi sono due;
primo, nonostante descriva qualcosa che è realmente accaduto, se la
sua mente lo ha così accuratamente selezionato è perché si tratta
di un frutto che l'inconscio ama far suo. Contiene quindi immagini
che rappresentano l'io di Liliana e, continuando ad agire sul testo,
che comunque potrebbe essere considerato concluso, la matrice
inconscia potrebbe diventare non razionale, che equivale alla morte
del simbolo, alla sua anestesia, ma intuitivamente compresa. Si
ricordi che una autopsia viene eseguita su un corpo senza vita.
Quello non è un essere umano ma il corpo di un essere umano. Manca
la vita, manca un qualcosa di importantissimo. E così è per i
simboli. Non li deve smontare la razionalità, mancherebbe in essi la
vita. Devono essere intuiti, non c'è altra soluzione. E perché va
fatto? Perché l'io profondo, quello vero, attaccato con le sue
radici immortali alla natura ... alla divinità, contiene quel che
veramente siamo e quindi la nostra indole, la tendenza esistenziale.
Se comprendo allora saprò qual'è la direzione da prendere nella vita.
Secondo
punto. Mi piace considerare non conclusa un'idea. É una buona
ginnastica per la fantasia ma aiuta anche ad intuire il senso.
Con Tonino
guerra questo "gioco" lo si faceva spessissimo. Due esempi
sono contenuti nel blog; selezionare anno 2013 e si troverà il post
<Tonino Guerra e We "Il Gigante">, un altro è il
racconto "Anatroche" che mi sembra di non avere ancora
bloggato.
Ho fatto
presente a Liliana che sarebbe interessante se pensasse a delle
variazioni. Mi ha risposto che non dovrebbe essere difficile poiché
dovrà prendere ancora quel treno, e io ho risposto che certo, va
bene così, ma deve pensare, immaginare, anche senza questa
opportunità che soffre del peso di una eccessiva concretezza.
Nel
frattempo ho elaborato un finale. Mentre glielo dico vedo la sua
reazione ... colpita al cuore ... al cuore del simbolo. Un sguardo
dilatato alla descrizione dell'ultima scena, pelle d'oca sulle
braccia. Quindi la via è quella giusta. Ha capito; ora sta a lei,
poiché per un artista il meccanismo è sempre il seguente: le prime
opere rivelano l'autore a se stesso, la consapevolezza graduale dell'io profondo, porta al capolavoro, entità rarissima che nel
novecento "sento" in Kafka, Fitzgerald, Papini, Pound,
Proust, Bulgakov e pochi altri. Quel che è difficile è tollerare,
resistere alla numinosità, alla potenza dell'emanazione dell'io
profondo. La tensione psichica è talmente forte che se ne esce
esausti, spenti, consumati. E chi ha provato quella sensazione,
questa specie di amplesso nel quale divento Dioniso che riesce ad
amare, a possedere Diana, chi ha provato una volta, non cerca altro
... perché altro non esiste.
Ecco ora il
finale mio per Liliana:
BIANCA
Finale di we
Che notte.
Niente sonno e la mente che deraglia continuamente. Non un pensiero
che si annodi ad un altro, non una parola, che scelgo attentamente,
che si trasformi in qualcosa di più di una parola. Decido di uscire,
è tardi e non so che fare. É sereno. Tutto bello, ma una bellezza
che non mi sfiora. Decido allora di fingere di scendere da quel treno
di mezzanotte e mezza. Manca un'ora, Parlare con Bianca mi sembra
necessario anche se niente di lei mi è certo, a partire dal nome.
Ecco il
treno immaginario, salgo e riscendo da un altro vagone come se fossi una
viaggiatrice vera.
Ma bianca
non c'è ...penso alla magia del numero tre. Tre volte l'ho vista.
Oggi niente, e me ne torno a casa delusa perché, affidandomi
all'abitudine avevo deciso che quel che era accaduto consecutivamente
tre volte doveva accadere ancora. É la scienza che commette questo
errore, lo so, ma qui non si tratta di scienza, siamo oltre, sono io
che sono in corto circuito. È qualcosa di più vero della scienza.
Seconda sera
consecutiva. La mente non va come ieri. Giro a vuoto. É come se
fosse accaduto qualcosa che, per il fatto di non essere stata
compresa, avesse deciso di affliggermi con questo disorientamento.
Torno in
stazione. Niente finto ritorno stasera. La luna è metallica, quasi
finta e io sono li, appoggiata al muro che guardo la gente scendere
dal treno di mezzanotte e mezza. Bianca non c'è. Non so spiegare il
perché ma so che è giusto così.
Torno a casa
e mi sento masticata da una sensazione che non è solitudine. No, è
qualcosa di più umido, fangoso, sporcante, e sotto ci sono io che
non riesco a capire.
Terza notte.
La mente in equilibrio sulle punte cade continuamente, e il pubblico
che immagino nella mente, sembra essere venuto solo perché quelle cadute
piacciono. Ma non soddisfano me, che cado ripetutamente su un palcoscenico
polveroso. Sudo per lo sforzo e per il disagio e quindi sono un
disastro di polvere che mi si attacca addosso e non mi sopporto più. Il
palcoscenico però non ha porte e io sono io e sono appunto la notte. Non so come uscirne e, fra una
disperata acrobazia e l'altra, osservo se fra il pubblico, così
serio e attento e che compostamente applaude ad ogni caduta, non ci
sia un posto libero nel quale rifugiarmi. Ma non c'è e non ha senso,
non so perché ma non ha senso. Sono in ballo e devo ballare. Tocca a
me e l'unica via d'uscita sembra possibile se riuscirò a stare sulle punte, a comprendere questa danza. Ma se c'è danza c'è musica! Ecco ... nella
tensione del cadere e rialzarsi, nel disgusto della sporcizia che mi
si accumula addosso, non ho sentito. Devo ascoltare ... e continuare a
cadere. Si. Ecco, c'è, ora la sento. Non colgo il ritmo e se non c'è
ritmo non è musica ma rumore. Poi mi risveglio da questa visione e
comprendo che qualcosa si è mosso in me. Dalla parola equilibrio che
mi sono offerta per sfuggire al niente della mente, è sorta la danza
orrenda, poi la caduta, poi il sudore e lo sporco, poi il teatro col
palcoscenico nero e senza porte, e il pubblico ... e il rumore non
udito per disperazione che pian piano si fa musica.
Non chiedo
più niente a me stessa, osservo il corpo che si lascia vestire dalle
mie mani, e accade con una insolita attenzione ai particolari. Il
corpo esce, lo seguo e io sono dentro di lui. So già che andrà in stazione ma non capisco.
Ed ecco la luna piena, che ieri ne mancava una fettina, ed ecco il
treno misteriosamente bianchissimo. Sono appoggiata al corrimano,
osservo la gente che scende e di una, non comprendo ancora se maschio
o femmina, vedo un'aura sottile e luminosa del medesimo bianco del
treno ... e dalla mia bocca, che ora è finalmente mia, sento
chiedere senza umiltà ... finalmente, senza angoscia, senza più
paura
"portami
a casa ... per favore ... andiamo a casa".