"MACCHIA UMANA" di Philip Roth
- Premessa -
Questo saggio ha una forma per nulla canonica. Non sopporto da anni gli scritti nei quali una persona si limita a giudicare. secondo me deve accadere dell'altro. Un testo mi colpisce, colpisce me, e io sono essere altamente individuale, definito da una storia personale, un qui geografico e un'epoca. Ci si deve mettere in gioco. Il lettore deve poter cogliere di quale natura è la soggettività che gli parla. Non importano i titoli. Tutto si compera, da una laurea ad una cattedra universitaria, e si sa che anche cariche più alte hanno un prezzo esprimibile in soldi e dignità spregiata. Nessun titolo quindi, ma un io che tenta di essere sincero e cerca di spiegare come e perché pensa di essere arrivato a certe considerazioni leggendo uno o più libri. buona lettura.
Perché ho scelto questa forma estrema ma spero discorsiva:
Ho acquistato di Finkielkraut "Un cuore intelligente". Sembrava una guida alla lettura e quasi tutti i testi consigliati li conoscevo, ma già alle prime righe sono entrato in crisi:. Eccole per il lettore: "L'opera d'arte, diceva in sostanza Alain, non appartiene alla categoria dell'utile. Se vogliamo determinarne il valore non dobbiamo quindi chiederci a che cosa possa servirci, ma da quale automatismo di pensiero possa liberarci." Ebbene. in questo inizio vi è una contraddizione. Ve la smonto: A) l'opera d'arte è inutile. E poi ... B) l'opera serve per liberarci da un automatismo di pensiero. A e B sono in contraddizione evidente. In A l'arte è inutile, in B l'arte serve a qualcosa. Perché accade questo? Al solito perché Finkielkraut è un intellettuale e non un artista, e di fatto si cimenta con opere che hanno un tasso di intellettualità assai elevato e che con l'idea che ho di opera d'arte hanno solo l'apparenza. Leggendo le opere che consiglia si fa un viaggio nella storia dell'uomo, non nell'Uomo, e allo scrittore secondo me la storia, particolarmente quella vista troppo da vicino, serve solo se allontana la carne e porta alla purezza dell'ideale, come accade per esempio in Primo Levi o in certe opere di Pavese. Lo scrittore è spinto a scrivere da motivi diversi da quelli che portano l'intellettuale a parlare di intellettuali e artisti, e il fatto stesso che mescoli le due categorie fino a confonderle dimostra che non ci siamo ... l'arte è nella categoria dell'inutile ... l'arte serve a liberarci da un automatismo di pensiero. L'arte non SERVE a niente .. l'arte SERVE a qualcosa ... questo cortcircuito di un intellettuale è la sua morte, e cerco di dimostrarlo anche con questo scritto.
QUANDO FUI AIACE
Il cucchiaino della marmellata,
sfuggendomi dalle mani, macchiò la tovaglia peraltro già sporca. La
si cambiava la domenica, giorno del bianco. Dal lunedì al sabato si
usava quella stampata oppure le tovagliette di materiale dozzinale, a
colori. Ricordo che ognuno sedeva di fronte ad una favola. Sotto la
mia tazza c'erano Hansel e Gretel. Venivano spinti nel forno dalla
strega cattiva. Su quella tovaglietta o tovaglia, ora non ricordo, la
favola non proseguiva. Eternamente i due bambini finivano nella bocca
a semicerchio, bordata di mattoni rosa. Il loro urlo, per me,
sovrastava il cinguettio della primavera appena nata. Per me, quando
cadde il cucchiaino, iniziarono ad esistere solo la bocca del forno,
il ghigno di stoffa e l'urlo, sempre di stoffa, rosso, potente, fino
a diventare nero. Sangue del buio.
Il cucchiaino della marmellata dunque,
cadde e macchiò. Volò uno schiaffo. Poi un altro. Sapevo che se,
minimamente avessi cercato di evitarli, sarebbe stato peggio. Si
sarebbe arrabbiata di più.
Immobile, attendevo che
terminasse il rito. Il terzo di solito era l'ultimo. Con una delle
belle unghie laccate di rosso mi ferì vicino all'occhio destro,
quello più distante dal cuore. Lo vide. Vide il sangue. Cercai di
dire che il segno c'era già, che ero caduto prima in camera, ma era
tardi per tutto. Ogni parola, ogni azione avrebbe solo peggiorato la
situazione. Lo sapevo bene.
E le sue parole … e le sue
mani …
“Alzati!”
“Come ti ho fatto ti
disfo!”
Detto senza rancore, con
calma.
“Se stavi fermo non
sarebbe successo! Io ti punisco ma lo faccio con attenzione. E lo sai
perché lo faccio? Dimmi, lo sai?”
Sì, lo sapevo. Se avessi
risposto, ripetendo il suo pensiero, non si sarebbe calmata perché
dimostrare di sapere e perseverare nella colpa era un'aggravante. Se
tacevo avrei dimostrato di voler resistere al senso di quelle parole.
“Voi uomini andate
addomesticati finché siete piccoli! Altrimenti … “
E oltre non andava mai, con
le parole.
Mia sorella guardava o non
guardava? Non l'ho mai capito. Continuava a fare colazione e
guardava oltre me, fuori dalla finestra, il vasto cielo azzurro che
all'undicesimo piano sembrava a volte entrare, carnoso denso, pulito
e inodore. E poi venivo mandato in camera. Colazione terminata per
me. Sentivo ora il loro dialogare sereno, qualche lieve risata, come
un cinguettio quella di mia sorella, come una cascatella quella della
madre. Senza la mia presenza, ecco oltre la porta della punizione,
una scena di civiltà.
Una volta ho trovato il
coraggio di aprire pian piano la porta, e pattinando solo coi calzini
sul pavimento di marmo grigio, sono arrivato vicino a loro, dietro
all'ultimo stipite. Talmente vicino che tentai di guardare. Avevano
liberato il tavolo della mia presenza. La tovaglietta, la tazza, il
piattino con la fetta imburrata e la marmellata di albicocca. No, non
era tutto. Riconobbi la mia fetta, tagliata in due. Erano all'ultimo
boccone. Non potevo sbagliarmi. Le mie fette le riconoscevo. Tagliavo
il bordo scuro con precisione, facevo finta di mangiarlo e lo mettevo
in tasca. Lo avrei poi sbriciolato sul davanzale esterno della mia
camera, per i piccioni che ormai mi aspettavano.
La mia fetta mangiata …
Chiacchieravano. Sentii con la mano il pane nella tasca e, sempre
pattinando sul calzini sul marmo lucido, cosa bellissima da fare e
non solo perché era proibita, tornai in camera mia. Mia mia mia …
no. Non mia. C'era la serratura, ma la chiave la teneva lei, e da
quel buco spesso mi spiavano per controllare anche se veramente
studiavo. Mi diceva che era suo dovere farlo perché i maschi si
masturbano. Io nemmeno sapevo cosa voleva dire e per questo ogni mia
azione, che non consistesse nel girare la pagina o scrivere, stando
compostamente seduto, mi preoccupava. Forse questo era masturbarsi?
Questo riempire le O e farci gli occhi e la bocca che sorridono?
Oppure era il dondolarsi mentre leggevo?
Mattina. Otto marzo 2015.
Sereno. Un po' di vento gelido. Fra un paio d'ore sarà caldino al
sole e freddino all'ombra, ma potrò indossare la mia amata giacca
tirolese verde da mezza stagione e passeggiare un po' col cane.
Non è ancora primavera …
secondo gli uomini. Ma è festa. Una festa strana. Un po' ipocrita,
un po' di sinistra e decisamente troppo convenzionale. Un po' come
quando dicono che il tal giorno si deve essere buoni. E a me sembra
che invece di promuovere una qualche versione della bontà, intendano
promettere trecentosessantaquattro giorni da orchi. Morirono in tante
in una fabbrica, negli USA. Allora non è festa, ma un giorno della
memoria per i crimini sul lavoro. Ma l'umanità è molto indietro e
ancora deve convincere tutti che bianchi neri rossi e gialli sono
uguali se non davanti a un dio, almeno davanti alle leggi. E poi,
donne contro uomini. E questa parità che non sarà mai se non
nell'apparenza perché i due generi sono purtroppo nati per fingere
sintonia e combattersi. Semplicemente la finzione deve crescere
d'intensità, la carta pesta deve essere lavorata con più
virtuosismo e un uomo deve sembrare un uomo e una donna una donna. E
poi, a lavoro ultimato dovrebbe essere promosso l'essere umano che,
maschio o femmina o gay o trans o interista poco importa, dispone
comunque quasi sempre di una tale carica di aggressività che prima o
poi emergerà e distruggerà se stesso e l'altro e il mondo. Otto
marzo. E le gemme non sbocciano ancora ma ci stanno seriamente
provando nonostante il vento gelato e i telegiornali ipocriti. Medea
e Achille popolano il pianeta.
Non è ancora primavera
secondo il calendario degli uomini, ma nel corpo di tutti gli esseri
viventi la metamorfosi già accade. Le giornate si sono sensibilmente
allungate. La luce entra dagli occhi e, quando supera un certo
“peso”, riesce a schiacciare un pulsante delle ghiandole. Gli
ormoni allora si moltiplicano e così, artificialmente, chimicamente,
e non per un pensiero liberatorio, viene la voglia di fare che sembra
voglia di vivere. Nel centro Italia, dove in questo momento mi trovo,
il primo segnale lo si sente già a febbraio con i gatti in amore. Il
loro grido, la loro sofferenza, l'urlo della carne che le femmine
placano solo facendosi ingravidare e i maschi ingravidando fino a
ridursi pelle ed ossa …
Gli alberi e tutte le piante
urlano coi colori e i profumi.
Gli umani cambiano odore ma
non ne sono più consapevoli, e si vestono come i fiori ma non se ne
rendono conto. E poi ci sono i modi di camminare e di parlare …
cambia tutto in primavera.
Ogni senso ha il suo
“rumore” che si desta o intensifica. Controllarsi in questo caos
sembra stupido, ma è saggezza o così almeno si pensa d'inverno. In
autunno è ancora stanchezza e paura ma poi il cappio del freddo
ferma il respiro del corpo e riesci forse almeno a pensare. Ma la
primavera annienta le buone intenzioni e si riparte per tornare
ammaccati. A meno che … a meno che, l'urlo di Hanse e Gretel dalla
tovaglietta non sia presente in te e se c'è, è per sempre.
Come ho raccontato, un'unica
volta uscii per vederle, per cercare di capire cosa accadeva di buono
nella loro vita durante la mia assenza. Poi decisi di costruire la
mia. Avevo i pezzi di pane in tasca. Aprivo la finestra, li
sbriciolavo e poi li appoggiavo sul davanzale. Poi dovevo chiudere. I
piccioni venivano per il cibo. Non per me. Mangiavano tutto poi
volavano via. Potevo solo guardare la vita attraverso un vetro, una
porta socchiusa. Se aprivo il vetro, se andavo oltre la soglia,
qualcosa di sbagliato accadeva sempre. Qualcosa che non sempre
capivo. E poi non era un capire. Si, la reazione era certamente
legata ad un fatto preciso, isolabile dal contesto, come per esempio
il cucchiaino sporco di marmellata che cade sul ghigno della strega.
Ma se ci ragionavo, se mi avventuravo oltre, solo una risposta
resisteva, almeno in casa. E sembrava che la mia colpa fosse di
essere un maschio. Ma, per esempio a scuola … Ero diligente, lo
ammettevano. Ma c'era qualcosa in me di imperdonabile che mi
sfuggiva. E dal prete, al campetto da calcio, le poche volte che
riuscivo ad andare, mi facevano giocare perché con me era più
facile vincere, ma spesso, quando ero distante, fra di loro
bisbigliavano, mi indicavano con lo sguardo e sorridevano con un
sottilissimo ghigno. All'inizio ben disposto da quella specie di
sorriso, mi avvicinavo, ma sempre loro si dissolvevano, volavano via
come i piccioni quando aprivo la finestra.
E poi ci fu la festa di
carnevale a scuola. Ero vestito da Arlecchino. A tutti diedero o una
spada o una clava di plastica o una bacchetta magica con in cima una
stella. Il bidello decise che ad Arlecchino nulla si addiceva se non,
vagamente, una delle clave di plastica morbida, perché era assai
colorata, in tinta quasi, col mio costume. In fondo aveva un buco con
un fischietto. Se colpivi non facevi male ed usciva un suono
divertente. Si decise di fare un torneo di duelli. Io ero al terzo
turno. La prima coppia duellò bene. Gli altri, e anch'io con loro,
facevano il tifo. Ricordo quanto era divertente scegliere chi
incitare. Uno studente piccolo e grasso, che per questo chiamavamo
Buddino, inesorabilmente lento in qualsiasi gioco, ascoltò la
tattica che gli proposi. Gli dissi: “poiché dopo due minuti di
incontro, il vincitore lo decide il pubblico ai voti e tu hai poche
speranze, devi farti furbo. Limitati a parare i colpi e mostrati più
imbranato di quel che sei, il tuo rivale si farà sempre più sicuro
di sé, si scoprirà e tu devi concentrare tutto te stesso su un solo
colpo ma potente”. E così accadde. Il rivale saltava come un
grillo e lui, Sancho tragicomico, accentuava la sua incapacità. Ogni
tanto mi guardava e io gli facevo cenno di attendere e poi gli feci
il segno convenuto e come un fulmine, la clava colpì lo snello
rivale proprio in mezzo alla fronte. Il fischio della clava fu
enorme, le risate che seguirono fecero il resto. A nulla valsero gli
attacchi successivi del saltellante. Sancho aveva vinto e fu per un
attimo, re del carnevale di classe. Poi toccò a me. Io, piccolo e
magro, sapevo di essere veloce e instancabile. Avevo capito le mie
potenzialità giocando al calcio. In Germania, nella squadretta dove
giocavo, la palla la si toccava solo dopo un'ora di allenamento. In
Italia invece la si prendeva subito e, se erano più abili di me di
piede, erano comunque senza resistenza. Di solito nel secondo tempo
delle partite io diventavo un campione in mezzo a una massa di gente
cotta che faceva fatica a fare due passi di corsa. Decisi così di
lasciar sfogare il mio rivale per un minuto e mezzo e scatenarmi
negli ultimi trenta secondi. Ma accadde qualcosa di imprevisto. Il
pubblico, che era appunto anche giuria, iniziò in modo prima debole
e poi sempre più travolgente, a insultarmi. Ero sbalordito. Mi
difendevo dal duellante e ascoltavo. Ecco di cosa parlavano
sorridendo quando ero distante. Ero “il tedesco”. Ecco il
problema. Ma per quale motivo essere tedesco era degno d'insulto non
riuscivo proprio a comprenderlo. Non persi comunque il controllo
della situazione. Scattai negli ultimi trenta secondi e la mia
superiorità si dimostrò netta. Ma la vittoria andò all'altro con
un giudizio unanime. Mi allontanai senza parole. Non capivo. A casa
avevo concluso che non era colpa del cucchiaino sporco di marmellata,
poiché anche davanti agli altri le macchie non mancavano. Potevo
comprendere i piccioni che non si lasciavano avvicinare, poiché
sapevo che c'era gente che li mangiava e forse i piccioni lo sapevano
e pensavano che la mia intenzione fosse di attirarli con le briciole
per poi metterli in pentola. Ma qui, anche qui un enigma. Un enigma
non fra animali, ma fra umani, che sussisteva, sia qui a scuola che a
casa. Andai da un'insegnante che, con ogni evidenza, dalla posizione
in cui stava, aveva assistito alla scena e chiesi se poteva spiegarmi
il senso di quel che era accaduto. Mi disse che i tedeschi, in
Romagna e non solo, erano mal visti per via di quel che era accaduto
durante la guerra. E io cosa c'entro! Risposi. Io non ero nemmeno
nato! L'insegnante sorrise e rinunciò al suo comodo posticino,
stravaccato ad una finestra con la schiena al sole. Mi dimostrò così
il suo consenso a quanto era accaduto. Ricordo fior di lezioni sui
partigiani, sull'Italia che aveva vinto la guerra, e io, che già
allora studiavo più di quel che mi era richiesto, sapevo che non era
vero … la mia reazione a quell'assurdità, fu altrettanto assurda.
Andai in bagno. Tolsi il tappino-fischietto alla clava di plastica e
la riempii d'acqua. Tappai poi in qualche modo alla buona e tenendo
un dito sul foro precario che era il punto debole del mio piano, mi
avviai verso quel pubblico che mi aveva insultato e tolto
ingiustamente la vittoria. Urlai che li sfidavo tutti insieme. Si
lanciarono e nel giro di due minuti erano tutti a terra doloranti o
in fuga. Con mia sorpresa scoprii di non aver agito da solo, Sancho,
il mio piccolo Sancho, mi aveva osservato e aveva “caricato”
anche lui la clava. Lui non aveva un motivo. Non aveva un perché per
me comprensibile, ma la sua soddisfazione fu quasi più grande della
mia. Solo più tardi, mi fece comprendere che si era vendicato di
anni di beffe e che mi rispettava perché io, quando scherzavo, si
capiva che lo facevo per gioco, senza cattiveria. Tutti stesi, tutti
ammaccati. Nessuno, nemmeno gli insegnanti, osarono avvicinarmi.
Chiamarono mia madre che ascoltò la loro versione, poi la mia, e poi
disse agli insegnanti che erano una massa di deficienti. Mi aspettavo
che si sarebbe arrabbiata con me e la celebre minaccia del collegio
stavolta si sarebbe concretizzata, e invece mi difese. Anche a casa
mi trattò come un eroe. Ero disorientato. Ma cosa c'era in
quell'azione che mia madre potesse tanto apprezzare! Ed ecco, con gli
anni affiorare e prendere forma, le risposte. Il nonno paterno era
fascista e fu parecchio turbolento. Lo uccisero alla fine della
guerra. Per lei, in quella mia reazione contro “i partigiani”,
c'era un poco di vendetta per un ideale suo, che non era forse
fascista, ma legato al dispiacere per il padre morto con un colpo di
pistola alla stazione di Bologna. Compresi poi altre cose, come
tasselli di un puzzle che, una volta entrati nella memoria, da soli
si mettono al posto giusto. Le quattro zie, sorelle di mia madre,
finché le gambe glielo permisero, mai rinunciarono al pellegrinaggio
annuale a qualche sacrario dei caduti. Non è difficile immaginare un
parcheggio pieno di autobus che arrivano da tutta la nazione. Con
essi toccano il suolo della distesa di croci, coloro che erano
giovani durante il fascismo, coloro che a scuola indossavano divise
del partito e amavano in esse in fondo, più di un ideale, la loro
giovinezza, fatta di vita gregaria e poco ragionamento. Se
inizialmente ci “caddero” anche personaggi come Vitaliano
Brancati e Curzio Malaparte, che erano essere finemente pensanti,
loro che erano solo future chiocce cosa potevano fare ...
Se la reazione di mia madre al mio
comportamento, mi fu chiara col tempo, mi domandavo comunque perché,
nella mia mente mi paragonai da subito, non ad Achille o Odisseo, ma
ad Aiace. Amavo già i drammi greci. In essi mi affascinava, ora ne
sono consapevole, più l'antichità, del senso e della poesia. La
poesia la trovai dopo in altre opere. Ma sentii di essere stato
Aiace, strumento degli dei che non accetta il suo destino, e non
meritevole quindi io come lui di stima quando “sterminai” un
“gregge” di bambini, innocenti nella loro banale ignoranza.
Il dato immediato che più mi fece
soffrire fu, una volta rincasato e finalmente solo, questa enorme
quantità di violenza che era scaturita dalle mie mani, dal mio
corpo, dal mio pensiero che, sfuggito alla mente si era affidato a
qualcosa che riuscivo solo a chiamare follia.
Nei giorni successivi, a scuola accadde
l'inverosimile. Gli insegnanti ignorarono completamente l'accaduto.
Nessuno ne parlò, nessun genitore venne a far drammi, e i miei
compagni iniziarono a trattarmi con un rispetto che per me non aveva
alcun senso. Sempre cercavano il mio consiglio. Nei giochi ero il
primo ad essere conteso e le ragazze, beh, le ragazze mi mandavano
bigliettini e sguardi conturbanti. Solo in me era presente la
consapevolezza che era accaduta un'enormità, che ero sfuggito a me
stesso e mi ero trasformato in una belva.
Non ci capivo niente.
E poi, col tempo, la vita inserì altre
esperienze, altri pezzetti che misero ogni senso al suo posto.
Accadde così che compresi che in mia madre c'era un'esigenza di
violenza che saltuariamente le era necessaria come sfogo. Forse
perché mio padre era malato e non poteva più “ammansirla” nelle
battaglie del letto? Mio padre aveva il suo bel da fare con la tigre
che lo consumava nella carne...
questo lo compresi con gli anni, ma
c'era in me una colpa che precedeva, agli occhi di mia madre, il
desiderio di violenza? Non sapevo e forse ora so, ma quel che mi
turbava allora e mi spaventa oggi, è questa esigenza umana,
insopprimibile in quasi tutti i suoi rappresentanti, di dare prima o
poi sfogo alla violenza. E quale fu l'esito sconcertante nel mio
caso? I compagni mi elessero a capo e saggio. Io, nel mio piccolo, se
avessi subito una simile lezione invece di darla, avrei isolato il
violento. Avrei costruito la mia giornata escludendo il più
possibile quel massacratore che ero stato. E invece no. Eroe e capo.
Eroticamente appetibile per molte mie compagne. Era tutto assurdo.
Non mi bastava allora. Ma ora mi basta. Ora so. Tutto è violenza. E
il mio primo compito consiste nell'agire su me stesso per evitare di
diventare di nuovo quel folle Aiace. Così sei senza amore, senza
sudditi, ma sei te stesso, sei più forte della violenza. E questa
sensazione vale la vita.
Ricordo quella volta che vidi due
anatre copulare. Di fatto fu uno stupro. Mi disse, il vecchio zio che
mi accompagnava, che le anatre fanno così. Il maschio sottomette la
femmina con violenza. Sembra più un tentato omicidio che una copula.
Gli uccelli sono assai primitivi. Ma in fondo noi umani, se si toglie
il peso dell'educazione, che ad altro non serve se non a tentare di
controllare gli istinti aggressivi, siamo identici. Spesso ho
definito il rapporto sessuale come la compensazione di due egoismi.
Ognuno è convinto di prendere, tutto sembra armonia, ma è solo
precario equilibrio. La carne per un poco si accorda, e la primavera
aiuta, dosando le valvole che squilibrano la nostra capacità di
autocontrollo, di pensiero, di educazione, di rispetto, di
spiritualità, di, sì, di vita. Tutto è tentativo di sottomissione.
Raramente nei drammi e nella storia, dei e padri, coi figli, non
vengono alle mani. Il padre dei padri, Urano, viene eliminato da
Saturno. Saturno da Giove e quest'ultimo viene alla fine dimenticato.
Ma Saturno evirò il padre, gesto che vuol dire fine della fertilità,
della vita, e poi dopo, Saturno, per paura che i figli eliminassero
lui, li divorava. Non esisteva ai primordi la sottomissione, ma
l'annientamento. Così però non era possibile vivere anzi,
organizzarsi forse non proprio per vivere poiché allora il problema
principale era sopravvivere. Vivere è un lusso che tutt'ora a pochi
è concesso. La sottomissione crea la comunità. Ma la sottomissione
è possibile solo con la forza, la violenza. Dopo due guerre
colossali e un secolo, il ventesimo, pieno di stragi e genocidi,
l'essere umano ha iniziato ad avere paura di se stesso, della sua
capacità di follia, come io ebbi paura di ricadere in una reazione
come quella che ebbi a scuola. Vinsi, divenni il beniamino con servi
e odalische, ma il mio io era strutturato diversamente. Altre erano
le sue intenzioni, le sue ambizioni. Io ancora ricordo e invece la
mia epoca ha già dimenticato le due grandi guerre e i genocidi e
questo deve spaventare un mondo che non vuole e non sa ricordare.
Ora, apro la finestra, metto le
briciole e i piccioni vengono. Non hanno più paura di finire in
pentola. La volpe la notte viene, mangia il cibo che le preparo e sta
a pochi passi da me. Mi osserva. Lei è tranquilla, io sono
tranquillo. Nessuno sottomette l'altro, o peggio, lo evira, come
faceva con me mia madre ogni giorno, o lo mangia, come fanno quasi
tutti quotidianamente. Ho anche compreso in cosa consiste, in fondo
in fondo questa idea così apparentemente assurda, del peccato
originale. La vita degli umani si basa sulla morte di altri esseri.
Indubbiamente si tratta quasi sempre per nutrimento. La caccia è un
residuo medievale tremendo. Non è uno sport uccidere. Se in natura
ogni essere ne mangia un altro per sopravvivere, l'essere umano,
ritrovandosi il pollice opposto alle altre dita, iniziò a possedere
una tecnica, e con essa un pensiero, e ora è in grado di vivere
senza più uccidere. Il cibo lo può costruire. E non solo quello.
Nel giro di un tempo che non so quantificare ma che sento essere
breve, potrà costruire corpi migliori, produrre quei cambiamenti
genetici che prima secondo Darwin erano frutto del caso con un prezzo
in sofferenza individuale, altissimo.
Ma a qualcosa l'essere umano non riesce
per ora a rinunciare. Si tratta di una aggressività che spesso si fa
violenza pura, sangue, strage. E va ben oltre le paure di Saturno e
di Urano. All'origine ogni essere umano era per l'altro, solo cibo.
Poi si raffinò e l'altro divenne, fra umani, da sottomettere, e gli
animali sempre e ancora cibo. Per me, in me, l'errore, in relazione a
questa epoca, è che non mi interessa sottomettere e gli animali non
sono cibo. Tutto vibra della possibilità dell'affetto, del pensiero.
Un alone di affetto possibile che non posso umiliare con la
regressione alla violenza. Spesso comportamenti umani mi hanno
portato alla soglie di una ripetizione di quella volta che fui un
Aiace, ridicolo in fondo solo a me stesso, ma sufficientemente
ridicolo da resistere e non cadere più nel tranello della violenza,
che della sottomissione è l'unico strumento. E violenza non è solo
usare le mani, i coltelli, le pistole, le bombe, ma consiste anche
nell'illudere, manipolare menti, creare leggi che di fatto
costringono ad essere schiavi di una banca, di una organizzazione, di
una mentalità, di una tradizione.
Nelle sere d'autunno, le porte e le
finestre aperte, le foglie secche che entrano, il vento muove tende
sottilissime. Non ho porte. Non amo le porte, se non quella
d'entrata, come anticamente nelle caverne dove un sasso, uno messo di
guardia o il fuoco, aiutavano ad esorcizzare la paura del buio. Il
sangue nero degli incubi, più veri della realtà.
E per me, non esiste soddisfazione
maggiore del vedere che l'animale spegne davanti a me a poco a poco,
la sua diffidenza. Solo così può nascere la civiltà. Questa è la
vera non violenza.
Vedo il mondo degli uomini come un
palcoscenico di cartapesta. Finto più di quanto nemmeno Fellini
potesse immaginare. Ogni sedia la si vuole trasformare in trono e
tutti cercano il centro sul quale devono, assolutamente devono,
convergere gli sguardi di tutti.
Da questo palcoscenico, da anni sono
sceso. Ogni tanto scrivo e vivo una piccolissima vita.
E di recente ho scoperto di non essere
l'unico ad avere capito queste cose.
Philip Roth nel suo libro “La macchia
umana”, arriva a queste parole: “chiunque abbia l'audacia di far
questo, non vuole semplicemente essere bianco. Vuol essere capace di
far questo. E' qualcosa di più del desiderio di godersi una beata
libertà. Ha qualcosa in comune con la ferocia dell'Iliade, il libro
preferito da Coleman, sullo spirito barbaro dell'uomo, dove ogni
delitto ha il suo carattere, e ogni strage è più efferata della
precedente.”
Coleman, il protagonista, è di origine
nera, da parte di madre. È assai “sbiadito”. Per chi non se ne
intende potrebbe passare per bianco. Il padre è ebreo. L'idea di
Roth, ha radici quotidiane. Ricordo che a New York girava una
barzelletta che raccontava di un gay che si lamentava di essere
discriminato. Una persona gli fece notare che era nero, ebreo e
omosessuale. I newyorchesi ridevano. A me non faceva ridere per
niente. E Roth è riuscito a farci un libro. Non un capolavoro, ma
una cosa interessante, che fa pensare, e pensare è meglio di niente.
Coleman decide quindi di negare le sue
radici per avere le possibilità sociali di un bianco. Tutto scattò
da un evento di gioventù. Fu buttato fuori da un bordello per
bianchi poiché la prostituta lo aveva riconosciuto per quel che era.
Per realizzare questo “sogno-incubo” deve rinnegare le origini e
quindi la famiglia. La madre è nera. La madre lo adora. La madre
deve dimenticarlo. Lui diventa preside di facoltà in una università
americana e insegna la materia più “bianca”, ovvero letteratura
classica. E ora torniamo a quelle righe di Roth. “ chiunque ha
l'audacia di fare questo, non vuole semplicemente essere bianco. Vuol
essere capace di fare questo. … ha qualcosa in comune con la
ferocia dell'Iliade”. Ecco, ci siamo. Roth, per un attimo, ha
“sentito” che la questione di fondo non si spiega con il bisogno
di realizzare una vita piena. Coleman potrebbe realizzarla solo in
qualità di bianco? No. E per un attimo Roth ci dice che la realtà è
un'altra. Ti butti nella mischia. Devi essere più forte dei forti. E
da ragazzo questo Coleman fu anche pugile. Questo sport, ormai
tramontato, fino agli anni novanta era la perdizione. Era adorato.
Per questo un lettore attuale non può comprendere in pieno la
portata di quella descrizione. Nel novecento il top
dell'intelligenza, quasi divina era rappresentato da matematici,
fisici e giocatori di scacchi. Lo sport preferito, prima
dell'intervento dell'organizzazione dei college che preferirono gli
sport di gruppo e poi dei media, fu il pugilato. Per vedere un
incontro dei pesi massimi in Europa si facevano delle levatacce
assurde. Era triste se non vedevi quegli scontri titanici in
compagnia. Era triviale, antico, possente. Con un piede nelle
primordiali sfide dell'Iliade e l'altro nel presente. C'erano regole.
Ci si lavava la coscienza con quelle, ma si attendeva la morte per un
colpo proibito che andava contro tutto, contro l'essere umani,
cristiani, divini o anche solo bestie. E un uomo solo era lassù, che
si chiamasse Clay o Einstein o Fischer. Erano i padroni della psiche,
di un mondo. Ora, Coleman da ragazzo, da bravo ragazzo, di nascosto
si sdoppia e rivela il lato aggressivo. In fondo quasi tutti gli
sport hanno questo compito. Che l'idea del migliore si sia fatta in
alcune specialità, sempre meno violenta, non cambia il concetto di
una graduatoria di valore fra gli umani che presuppone un rispetto
che è forma latente ma non troppo di sottomissione resa evidente da
un cronometro, da una pallina che è finita o fuori o dentro o sulla
riga. E nella boxe Coleman era il migliore. Poteva esserlo senza
ferire, con stile, nel modo più elegante e moderno, Il maestro gli
diceva di essere elastico e di mettere a segno piccoli colpi
magistrali. Avrebbe sempre vinto ai punti, ma non gli bastava. Vinse
per ko. Poi, una volta all'università passò professionista, e anche
li gli consigliarono di andare piano. La gente paga il biglietto. Non
fargli vedere solo un round, fanne passare qualcuno. Buttalo giù se
proprio non resisti, verso la fine. E invece al primo round il rivale
era già al tappeto. Lasciò il professionismo perché … e questo
perché Roth non lo dice, ma è nell'aria … perché Coleman ha
bisogno di lotta primitiva, feroce, che dimostri la sua “belvità”,
e pretende che questa sia premiata.
E in questo romanzo chi vince realmente
lo scontro? Se proviamo a dare dei punti ai vari personaggi, Quella
professoressa di origine francese che approda al college, assunta
dallo stesso Coleman, innesca una scena teogonica ben nota.
Coleman-Urano, viene evirato-distrutto dalla neoassunta-saturnina,
che cerca un partner per figliare un Giove ecc. accade che lei il
partner non lo trova e scopre suo malgrado che l'unico adatto per
potenza era proprio colui che ha distrutto. Questa complicazione
aggiunta abilmente (e che stimo), dall'autore, ci mostra la sfida
impazzita di tutti contro tutti e anche l'aspetto generazionale e il
vincolo erotico che deragliano nel non senso, nel caos.
Ma per quale motivo Roth sfiora due
volte la chiave di quel che ha scritto, ma non va oltre? Perché non
ne è consapevole se non a sprazzi, a brevi illuminazioni che
probabilmente lo spaventano. Penso anche che con l'età, abbia
risentito di sconfitte dal punto di vista erotico e probabilmente di
stima, non tanto dalla massa e dalle vendite di libri, ma da qualche
individuo che avendo ricevuto un poco del suo disprezzo, ha saputo
non temerlo e reagire.
Penso che, calato troppo nel compito
consapevole di mascherare una sua realtà personale e vissuta, non
abbia saputo superare se stesso.
Mi spiego. Si leggano “L'avvoltoio”,
“Nella Colonia Penale” di Kafka e si “sentirà” una certa
atmosfera di sopraffazione e annientamento incombente, inesorabile,
irrimediabile. In essi è presente il sangue come limite superato,
punto di non ritorno, della violenza che si fa primigena. Ecco il
pugile che fa sanguinare l'avversario ma che per esigenze di
spettacolo deve trattenersi e stare al gioco di una finzione che la
ferocia primordiale non può sopportare. Essa si esprimerà nel ruolo
“civile” del preside di facoltà spietato. Ricordo un passo,
sempre in questo libro di Roth, che parla di arrivismo e di come
siano stati gli ebrei ad avere portato questa battaglia all'estremo
nelle università americane … e io penso a Paul Nash, che a
Princeton si trovò inserito in un dottorato gestito da un
personaggio ebreo con le mani ustionate del quale ora non ricordo il
nome, che non voleva sentir parlare di voti. Quelli te li garantiva
da subito. Pretendeva che lo studente frequentasse le lezioni che
preferiva, liberamente e senza obblighi, e poi producesse materiale
di valore. L'ora del tè, che si svolgeva fra gli studenti dottorandi
e i loro professori, serviva a creare un'atmosfera di competitività
che rasentava l'ossessione e spesso sfociò nella nevrosi. Ecco il
mondo che Roth da per scontato nel libro, ma che al lettore non
nordamericano va spiegato. La facoltà era la selva feroce. I morti
erano coloro che in qualsiasi modo venivano esclusi, e la neoassunta
professoressa di origine francese, riesce ad annientare Coleman che
è il suo datore di lavoro. Lui non accetta la sudditanza erotica
inclusa nell'assunzione e lei lo distrugge. Come? Non ha importanza.
In un mondo nel quale la morale è solo una facciata, proprio non
importa.
Ma Roth, per l'ennesima volta ha
mancato il centro del bersaglio, e ormai penso che sia accaduto
perché ha paura di quella consapevolezza latente che appare e
scompare come scrittura automatica nei suoi libri.
Terminando la recente rilettura de “La
macchia umana”, mi tornava continuamente in mente “Mr Vertigo”
di Paul Auster. Non capivo perché e poi la risposta è arrivata nel
sonno. La mia idea di letteratura è la seguente: descrivere una
realtà che ci turba per mezzo della fantasia. La fantasia non usa la
sola realtà, ma tutto tutto tutto. Non importa se un asino vola o si
limita a camminare e nemmeno se è rosso e fa chichirichì. Importa
che il significato arrivi al cuore, che il cuore ci esploda e che si
debba ristrutturarlo a nuove irrinunciabili consapevolezze. Roth ha
sempre usato solo la realtà per descrivere la realtà. Ricordo solo
un racconto dal titolo “il seno”. Una cosina triste che non parte
e non arriva da nessuna parte. Ma che legga “L'avvoltoio” e
mediti la possibilità di lasciarsi andare ai suoi mostri … basta
arrivismi e erotismi. Ormai è solo, in un carcere che è il corpo,
che invecchiato, non è più trionfo di potenza adulata ma sudditanza
estorta. Si deve andare oltre, (anche lui l'ha intuito ma non ha il
coraggio di renderlo esplicito), ed è la rivelazione della paura
della violenza, scoperta che accade in noi stessi, e l'esigenza del
continuo annientamento dell'altro come soddisfazione mascherata ma
inesorabilmente dominante. Basta lotte fra uomini e donne. E basta
all'insensata fame di dominio, di superiorità, di soldi, tanti soldi
fino a non accontentarsi mai, dimenticando che i soldi sono
possibilità, che oltre un certo limite perdono ogni senso nella
dimensione individuale (e, se non si riesce a diventare altruisti,
donando possibilità ad altri, si diventa mostri, caricature).
In “Mr Vertigo” Auster, ha
inventato qualcosa di irreale che rappresenta magnificamente la
realtà che “sente”. Più passa il tempo e più amo quel libro.
Più passa il tempo e più rifuggo chi sa scrivere e non affonda la
lama in se stesso fino in fondo … per paura di soffrire, per paura
delle proprie radici primordiali. Ma solo l'artista può farlo, solo
il vero artista ha questo coraggio. Ci vuol più forza interiore ad
essere un carrierista di successo che descrive con abilità la
superficie delle cose oppure a rinunciare ai tanti, troppi cavalli di
un'auto come non seppe mai fare Brecht? E in quei medesimi anni, in
silenzio, senza riflettori, un Kafka, nella medesima Berlino toccava
il cuore umano, lo descriveva e lo metteva davanti allo specchio, per
sé stesso, per me, per tutti!
E penso al Miller del teatro americano
con opere come “Morte di un commesso viaggiatore”, nel quale la
finzione americana si sgretola, oppure “Erano tutti figli miei”
nel quale invece esplode e fa molto, troppo male. Ma a quel male chi
è andato oltre? Per ora nessuno dopo Kafka, purtroppo. Ci stava
arrivando Camus, ma un incidente stradale gli ha tolto la possibilità
di terminare “Il primo uomo”. Con fantasia stupenda Strindberg e
Bulgakov hanno abbozzato, aperto vie, ma se l'artista non si libera
di erotismi e arrivismi, malattie epocali che fanno volare basso,
troppo basso quel che in noi va oltre il pensiero … allora la
letteratura, in mano ai commercianti, ha finito di esistere.
L'uomo messo a nudo, che osserva le sue
radici e le ri-fonda. Questo deve accadere. E quando, come accade a
me, la violenza ti invita con doni di sudditanza ed erotismo, si deve
resistere, perché c'è di più, e non può comprenderlo chi non ha
mai atteso umilmente di essere accettato da una volpe, da un merlo,
dal riccio. La violenza, nelle sue varie forme porta al successo si,
ma nella carne, nella solitudine. Ti offre qualcosa di perennemente
transitorio e che qualcuno con altrettanta violenza ti porterà via.
Ma c'è qualcosa di più. Esiste un'armonia che se solo ti sfiora ti
fa tremare in tutto il tuo fragile esistere, e sentirai che essere
vivi è solo una tappa enorme, infinitamente infinita, e che da
serenità, e ti fa ridere di chi vuole arrivare primo dimenticando
che non esiste gara, ma un percorso che sembra a tappe, che abbiamo
trasformato in tappe perché l'infinità, in tutte le sue forme ci
sembra spaventosa e inafferrabile.
amen