domenica 5 giugno 2011

Meditando su un passo di Mc Almon

5giugno 2011  

Questa mattina ho letto le considerazioni di Mc Almon[1] su Joyce e il suo uso della parola.

Non posso non condividere e tenere conto di quel che dice e trattandosi di un momento della creatività che ho superato e risolto, lo offro a chi desidera “saper scrivere”..... per pensare.

Mi spiego

Mc Almon dice che l'infatuazione per la singola parola, per la sua definiamola, plasticità sonora, era una “malattia” di Joyce, e che ad essa tutti coloro che si cimentano nella scrittura, prima o poi pagano pegno. Joyce invece vi rimase irrimediabilmente (secondo Mc Almon, ma anche secondo me), legato. Si, so di essere d'accordo anche perché, ripensando alla mia adolescenza ricordo ora, sorridendo di me stesso, quell'innamoramento.

Un esempio può servire per far comprendere come ci si trovi ridicolmente travolti da questa apparenza che, essendo appagante, non ci permette di emanciparci e di crescere.

Ricordo una persona che veniva a trovarmi a casa. Gli offrivo il caffè, si chiacchierava e...sapevo bene perché era li...per leggere quel che di nuovo potevo aver scritto. Secondo me in lui questa curiosità non accadeva per apprezzamento; infatti il suo atteggiamento critico era assai libero e il mio narcisismo, non ancora consapevole che una critica vale ben più di mille complimenti, ne soffriva un po'.

Ripensandoci ora,credo di esser stato l'unica persona che conoscesse, o ancor meglio, che si lasciava conoscere, e che in più scriveva.

Era un tipografo e mi fece notare che spesso chi andava a stampare da lui, a pagamento o per mezzo di un editore, era come seduto su un trono d'oro che a lui sembrava un seggiolone da bimbo, e che da quell'isolamento lassù in alto, senza dialogo, pontificava o elargiva la propria presenza convinto che il presente avaro, sarebbe stato eclissato da un futuro che non poteva non incensarlo.

Io invece cercavo il dialogo ed ero appassionato. Combattevo per un'idea letteraria, artistica, con la medesima foga che si spende nei bar per il calcio e la politica e non perdevo troppo tempo nel selezionare il dialogante. Mi sembrava impossibile, intollerabile che esistesse qualcuno che non fosse interessato a quel che io amavo.

Allora accettavo le critiche anche se, come ho già accennato, nascostamente ne soffrivo. Esiste un'età per la quale basta amare per giustificare tutto, perché tutto sembri diamante.

Quanto sono cambiato... Ora trovo che i complimenti siano una perdita di tempo e se mi capita di conoscere personalmente qualcuno che mi ha letto, mi interessa solo verificare se quel che intendevo dire è stato recepito. E non cerco questi incontri.
Del narcisismo non è rimasta nemmeno la polvere. Ora la scrittura non deve nemmeno soddisfare me stesso.

Questo tipografo, dunque, lo lasciavo andare alla scrivania e dopo mi diceva quel che pensava.

Un giorno mi fece notare che in una poesia avevo usato la parola barman.

Dovete sapere che quel vocabolo, oggi ha un senso diverso e ben definito. Forse allora le classi più elevate già lo percepivano come oggi, ma per me che le classi non le vedevo e che bevevo al massimo una birra o un calice di spumante, quel mondo di significato era appiattito dal non uso. Certo è che ora, il termine barman è di uguale significato per tutti.
Tempo fa era, almeno per il popolo, un vocabolo piacevole e che dava un tono perché era straniero. Lo si conosceva perché nei film americani i doppiatori lo mantenevano e mai veniva tradotto con l'equivalente di un'altra lingua. Non era concepibile che Bogart dicesse “barista!”. La parola barman era connaturata in lui non meno del suo panama.
Molti attori americani erano adorati perché compivano riti che spesso, anche inavvertitamente si imitavano[2]. Ora non fuma quasi più nessuno e ne son contento, ma la fortuna di James Dean fu indubbiamente dovuta, oltre che alle sue capacità, e oltre che al suo sguardo di miope frainteso che non si rassegnava agli occhiali, anche per il modo unico che aveva di far rotolare il tumbler[3] fra le palme delle mani, sommato al modo di tenere la sigaretta fra le labbra o con i denti.

E' come leggere oggi qualche riferimento anche rapido, al ventaglio nei romanzi dell'ottocento. Quell'oggetto, più che far aria doveva, come la sigaretta o il sigaro o il monocolo per l'uomo, supportare e “sopportare” una gestualità che raggiungeva punte di raffinatezza per noi ormai definitivamente perdute. Si pensi per esempio al fatto che alle feste, con una matitina, la signorina segnava su di esso, in accurato ordine, prima dell'avvento del carnet, con chi fare coppia ai vari giri di danza... e si pensi al rossore, alla vergogna provata dalla fanciulla che poteva ostentare pochi inviti e di conseguenza aprire poco il ventaglio per non mostrare gli spazi vuoti....

…..ed ecco che io, più vittima che protagonista del mio tempo adolescenziale, avevo scritto “barman”.... Lui mi disse chiaramente che si trattava di un atteggiamento.

Quando se ne andò, cerchiai l'incriminata, pensai e ne uscii cambiato.

Il modo di agire verso la singola parola, modaiolo o sonoro che fosse, mi lasciò quasi definitivamente.

La domanda divenne allora la seguente: come scegliere le parole da “usare” ?

E compresi, col tempo, che se avevo qualcosa da dire, esso medesimo, questo qualcosa, senza consultarmi, si sarebbe trasformato, come e quando avrebbe ritenuto opportuno, in parole.

E ora, dopo anni di tirocinio di me stesso, accade che spontaneamente, senza metterci mano con estetismi, le parole si mettano in fila e si facciano frasi e le frasi racconti.

Mi capita di apportare qualche piccola correzione, per esempio per quanto riguarda le ripetizioni che, così comuni ed accettabili nel dialogo, quando le vedo scritte, mi infastidiscono.

Per il resto ho deciso di lasciar fare alla mente o, per meglio dire, all'anima che è somma, secondo me, di cuore e pensiero.
E l'anima appunto, faccia quel che vuole. Come dicevano gli antichi darò la colpa o il merito alle muse o alla divinità?  ...nulla è impossibile per un'anima.

Lascio comunque che il vero me stesso si senta libero da me. Ed uscirà l'io che sono veramente, profondamente. Questo lo confronterò con quel che credo di essere e, se combaciano come immagini allo specchio, penserò che possano valere qualcosa.

È grande letteratura solo quando quell'io che hai lasciato libero di esprimersi è identico a quel che sei. Non ci è concesso di essere più che minuziosamente, completamente sinceri.

In questo modo, è evidente che lo scrivere è per chi  lo fa. Il mondo non c'entra.

Tutto quel che accade dopo, è fuori di noi, incontrollabile, indifendibile e inattaccabile. È tempo perso accanirsi ad agire. Il mondo è troppo complesso per potersi permettere una legge diversa dal caso.

Vivere e cercare profondamente di comprendersi.

Oltre questo non esiste realtà.


[1]“Vita da geni” di Robert Mc Almon. ed. Adelphi – collana Biblioteca, n.341
[2] I tempi amano ripetersi ma mai in modo identico. È appena terminata la moda che ho visto nascere negli USA ed esportata a Cannes e da qui a Parigi, dell'assenzio. Si vedevano attori che estraevano una custodia di solito di pelle nera, ne usciva un cucchiaino che, sempre di solito, era d'oro o platino e che si erano fatti disegnare da un nome noto quando non lo avevano disegnato loro stessi, poi lo appoggiavano sul bordo del bicchiere, vi mettevano sopra la zolletta che veniva imbevuta di assenzio appunto e poi giù, con calma, acqua da una caraffa. Era più importante il rito della bevanda che infatti spesso, a riprova di quel che vi narro, non bevevano fino in fondo. La finzione, nei locali pubblici era tutta ad uso e consumo dei presenti che diventavano seduta stante un pubblico ansioso di imitarli e non si trattava certo dell'assenzio allucinante del secolo precedente che ora era ed è proibito. Questo veniva mostrato con finto mistero carbonaro a feste private e colava, denso, da bottigliette simili a quelle tascabili da Whisky.
Un altro rito che ha preso piede, è quello di “rullarsi” le sigarette. Molti dicono che sono più “buone”. forse per qualcuno sarà anche plausibile, non non ci piove che chi ha carenza di personalità affida a queste “cerimonie” un fascino che è ben consapevole di non poter “lanciare” con uno sguardo o un gesto saturo di pensiero.
[3]Semplicissimo bicchiere cilindrico

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