domenica 27 dicembre 2020

A proposito di una raccolta di poesie di Massimiliano Pradarelli

 

Lo chiamo Pradarello, non Pradarelli, chissà se se ne è mai accorto. In italiano la tendenza dominante dei cognomi è in -ini, -ni, -i; ovvia l'origine toscana. In Piemonte domina la o, ad esempio Ferrero, ed è Ferrari, con la i in Emilia Romagna ecc.

Pradarello è il cognome giusto, è anche l'dentificativo giusto. Si chiama Massimiliano. Nome non diffusissimo ma, immaginiamo un giorno di festa e la piazza di una cittadina … se grido Massimilianoooooo! Ho la certezza che non si girerà una sola persona. Ricordo quando a Napoli gridai fra la folla Gennaroooo! Si girarono un centinaio di persone. La presero sul ridere ed iniziarono a chiamare altri nomi. Rocco risultò essere il secondo, un santo che a Napoli ebbe un destino strano come in fondo si può dire di quel popolo, sicuramente geniale (basti pensare ad Eduardo e Totò e … alla pizza) ma anche irriverente in modo quasi comico anche col sacro. Tanti anni fa, poiché il Vesuvio non sembrava più un pericolo mentre la peste anzi, le pesti, imperversavano e il buon Gennaro era ideale contro le eruzioni, lo destituirono e ne gettarono la statua in mare. Non sto scherzando … è la storia che ogni tanto sa avere umorismo. Misero al suo posto san Rocco, protettore degli appestati e in effetti, per quell'aspetto le cose andarono meglio, che san Gennaro pensava solo a o' Vesuvio. Ma poi il vulcano si svegliò, girarono con san Rocco ma lui alla montagna assassina non dedicò mai attenzioni e così … finì in mare pure san Rocco, cercarono di recuperare la statua dell'altro santo che non si fece trovare, ne prepararono una nuova che fecero girare nei luoghi in cui la lava minacciava da vicino le case e … miracolo, la pietra incandescente si fermò. Quindi … secondo me, una religiosità un tanto al chilo. Quel che ho raccontato sembra una digressione, si potrebbe pensare che intendessi farvi sorridere, ma ricordate … e proseguiamo nelle meditazioni.

. Quindi da anni lo chiamo Pradarello, e ora che l'ho reso unico (solo lui si girerà a quel richiamo e non membri della sua famiglia o omonimi o parenti), vi dico che mi ha donato un libretto.

Titolo, “Ecco, improvvisamente le lacrime”. Valutiamo il titolo ...

Analisi non razionale (assurdo in termini per gli intellettuali, ma sensato per chi mastica e vive nei simboli): Ecco. Ecco qui … per esteso. Il qui e ora reso anche nel linguaggio popolare. “Ecco fatto!” = fatto ora.

Poi segue la parola “Improvvisamente” … Di nuovo il fattore tempo. Deduco che qualcosa accade, con una certa dose d'imprevisto per chi osserva la scena (immagino il Pradarello che quelle parole le pensa mentre qualcosa gli sta accadendo). Dunque, il qui e ora concreto, seguito da una precisazione che ci informa che il qui e ora è saturato da un evento imprevedibile … e l'evento consiste in “piccole lacrime”. Piccole, per lacrime, è raro per non dire rarissimo, mi da l'idea di un dolore che la dignità vuol contenere … ma non ce la fa, oppure? Non so ... tengo presente che ho scritto queste righe, compresa la descrizione che segue della copertina, prima di aver aperto il libretto.

La copertina mostra una foto in bianco e nero, un paesaggio innevato con alberi. Ma … e l'inverno rappresentato non è un rafforzativo di un certo modo inconscio, ma collettivo di percepire il tempo? Certo. Quando nevica il tempo rallenta. Quando ha nevicato il tempo si ferma, il paesaggio si fa immobile. L'inverno se rappresentato con paesaggi senza umani e oltre il resto con alberi scheletriti che hanno perso le foglie, rappresenta il tempo immobile … e il tempo immobile è l'assenza di tempo.

E ora il collegamento cruciale … sotto il titolo in neretto, schivo ma ovviamente leggibile, il sottotitolo: “Lectio divina tra quotidianità e poesia”. Appare il divino … e questo, già lo so, allontanerà il lettore superficiale. Il senso del sacro, l'essere credenti, non è di moda. La filosofia per esempio, si è fatta laica contro la volontà generale che non lo è. Del novecento per esempio, certi filosofi non appaiono nei libri di testo … o sei laico, o fuori … non esisti. E sfido i prof di storia dell'arte a comprendere Kandinskij, che non stimo, senza conoscere Rudolf Steiner. Sfido Il surrealismo (quello finto di Breton e non quello vero di Savinio) a muoversi nella sua irrealtà intellettuale dimenticando Gurdjeff , Ouspenskij ecc, e le sedute spiritiche e le fattucchiere. Si son nutriti di sacro! Sacro spesso un tanto al chilo, è vero, come quelle persone che buttarono san Gennaro a mare perché l'utilitarismo selezionava nella loro mente anche … i santi. Ma che ci sia una spinta verso il laicismo da parte di pochi laici, negando l'evidenza del sacro che le gente vive, spesso suo malgrado, ecco … questo non si può, non si deve dire. Ricordo Tonino Guerra che dalla cimetta di Pennabilli diceva di sentire in certe giornate solitarie d'inverno dal suo giardino, Dio che tossiva … ed era un comunista, che per vergogna del comunismo militante si definì comunista zen, Un paradosso in fondo, perché il comunista è un materialista (Dio non esiste), e la filosofia zen, gira intorno a un non detto che è il senso del sacro che è una sensazione che capita di provare anche a chi non si è mai posto, sulla divinità, domande chiare. Io stesso, travolto dalla vita, per anni mi rivolsi a Dio solo come all'ultima possibilità prima della sconfitta ma … un giorno, dopo aver letto passi eccezionali da libri che amo, passeggiando col cane, mi sedetti in riva ad una palude e … improvvisamente mi resi conto, fu un attimo, che tutto aveva un senso, che tutto era sintonia e che a noi sfugge perché camminiamo nei secondi, in un succedersi scabro di attimi. Cos'era quella sensazione? Era la divinità che si annuncia? Era il suo preludio? Quel che so è che quella sintonia col tutto, col vento, col fenicottero stupendo (anche se vestito di un inelegante abito rosa), col battito del mio cuore e di quello del mio cane e del pianeta e di tutto … in quell'attimo, quella sintonia mi ha tranquillizzato. Non si pensa la divinità, la si intuisce … e poi vi è il miracolo. Mi diverto a chiederne una definizione. Sospendete un attimo la lettura e provateci per favore. Fatto? Ecco la mia versione: un fatto al quale la scienza non sa dare risposta … ma non mi fermo qui. Spesso in un futuro prossimo o distante, la scienza ha poi spiegato. Il miracolo ha una caratteristica in più … non è comunicabile. Ti accade qualcosa di strabiliante? Ecco … è solo tuo. Se lo racconti non verrai creduto. Tutto qui … e negare che accade è banale come gettare san Gennaro.


Dunque. Apro il libro, lo leggo tutto di sera, con calma e con una matita in mano.


La prima, forse la più bella, ci spiega qualcosa del titolo.


Ecco, improvvisamente

piccole lacrime

nel tuo volto bianco e delicato

Mia dolcezza

perché piangi?

Non sai che il Signore

nostro l'Altissimo

ne chiederà conto?


Torniamo a noi. Ho rispettato tutto, le maiuscole e la forma grafica.

Se ci fermiamo qui abbiamo un dubbio: o un bambino o una donna. Le righe successive, semplici e chiare, ci dicono che è una bambina.

Consiglio di rileggere togliendo la penultima riga, Quel “nostro l'Altissimo”. Si “sente” così qualcosa di immediato, di semplice, che profuma di casa, di vita quotidiana. Quel “non sai che il Signore ne chiederà conto?” lo si ricorda nelle nonne e non solo, spesso appariva nelle risposte per far comprendere che la responsabilità di una frase o di un gesto non era solo nei confronti dei presenti o di chi subiva l'azione, ma sopratutto … nei confronti del Signore. Questo è un dato di archeologia recente che si ritrova nel linguaggio. Mio padre in Tirolo, nel primo dopoguerra (aveva cinque anni nel '45) si svegliava tutti i giorni alle cinque. Alle cinque e mezza con la famiglia era in chiesa; breve funzione, poi a casa, colazione e poi nella vita. Le Case Sante ne erano il fulcro. Costruite dai paesani (piccolo era il borgo che se andavi un po' veloce in auto nemmeno lo notavi), consistevano nella chiesa, la scuola, la casa del prete e il cimitero. Non erano del comune, ma dei paesani che dedicarono delle domeniche pomeriggio per costruirle. E la vita quotidiana iniziava col sacro. Il mezzodì lo decideva il prete con le campane e non con l'orologio … il tempo era di Dio e non del mercante. Se il parroco si era fermato a far due chiacchiere in osteria (di un mio parente … solo tre cognomi si intrecciavano nel borgo), ecco che il mezzodì era alle dodici e dieci. Tutti a casa, preghiera paterna sul pane con un pensiero, ancora nel '45 anche per il buon padre Franz Josef) e via a nutrirsi. E poi chi al lavoro e chi ai giochi e quando il prete suonava per il vespro ecco che la comunità tutta si riuniva nella Casa Santa nota a noi come chiesa. Si pregava, ed era un atto collettivo. Si passava poi insieme a salutare i morti che, sistemati in terra sul retro, ben separati dal resto da un muro di pietre ben costruito, sembravano di fatto in una barca di pietra che contenesse chiesa e cimitero e che in un giorno del giudizio imprecisato, si sarebbe staccata per volare in cielo.


Accadeva settant'anni fa … accadeva ieri. Lo ricordo anch'io negli anni ottanta del novecento questo modo di vivere, che sopravviveva ancora e non solo nei vecchi. La mattina in chiesa ci si contava, ci si rinfrancava nello scoprire che si era tutti presenti, vivi. Ricordo anche la vecchia misteriosa alla quale i paesani si rivolgevano per i loro malanni, e solo se lei non riusciva, si andava diffidenti dal medico … correvano gli anni ottanta … quarant'anni fa, un ieri che anche le parole di quella poesia ancora portano in sé …


non sai che il Signore ne chiederà conto?”


ma … c'è qualcosa che interrompe questo reperto e intende completarlo …


Non sai che il Signore

nostro l'Altissimo

ne chiederà conto?


Quell'aggiunta, quel “nostro, l'Altissimo” ci pone davanti ad una certezza assoluta. Per l'autore, non esiste il dubbio di Dio. Tutto si basa su questa certezza.

Curiosa è l'ambiguità che ne segue. Dio ne chiederà conto per punire o per lenire? Ne chiederà conto al padre o alla bambina?

Questa calcolata ambiguità ci mostra la divinità come misteriosa, spesso incompresa nel suo agire. Nelle poesie che seguono, ci son descrizioni della vita che è divisa in due luoghi netti: la famiglia come un rifugio esente dal male perché il padre terreno, il poeta, consigliato dal Padre celeste, veglia, e il mondo esterno luogo in cui si scatena la battaglia e … per i fatti sgradevoli che vi accadono, rende incomprensibili i piani della divinità. Tracce del dio ebraico, intransigente, che si mescolano col cristianesimo fatto di perdono.

Il finale di una poesia a pagina 49, ce lo conferma …


Chiunque il male

avrà fatto

gettato nel fuoco

divorato (almeno per un minuto...)


E tutti

sicuramente

salvati


Nel fuoco almeno per un minuto mi fa sorridere. Una divinità non risponderà mai al male con il male. Se qualcuno, dal nulla ha creato sofferenza, punire come fanno gli uomini (e celano questo loro assurdo dicendo che agiscono secondo giustizia), genera altro male, altra sofferenza. Ma il Pradarello è umano, dimostra di sapere che non è in grado di reggere a certe malefatte semplicemente col perdono. Una passatina sul fuoco, rosolarli un attimo … qualcosa di romagnolo, di simpatico come questo popolo e questa lingua, che brilla d'ignoranza ma ha un discreto cuore … e infatti, dopo aver messo i cattivelli nell'angolo dietro alla lavagna con le ginocchia sul mais … ma per un solo minuto, ecco che tutti torneranno al loro posto, perché appunto un Dio grande, un Dio vero, è perdono.


Il bello di queste poesie è che spesso l'inizio è laico e talmente semplice … da stupire, ma si ricordi quel che disse Jorge Luis Borges … “la poesia semplice, di una semplicità che cela una segreta complessità …

e infatti …


Vorrei cercare

sempre

di non farmi influenzare dalla massa

spegnere la tv e …”


e poi un'azione, una meditazione, un tentativo di mantenersi integri nonostante i fatti e le bugie evidenti del mondo esterno.


Un altra osservazione e poi il silenzio, perché mai si deve rivelare troppo di un'opera …


I bambini ... si coglie che per l'autore essere diventato padre è stato un evento travolgente.


Vita

che torna alla vita

senza tempo

nell'universo.

Forza nella debolezza.”


Invertendo il “polvere sei e polvere tornerai”, sconfiggendo la morte ...ecco spiegato quel che si riceve con la paternità … in due parole. La debolezza dell'essere umano, e la sua forza di durare non in paese, o sulla terra, ma nell'universo, termine che ha la capacità di farci sentire infinitesimi, assurdi, insensati, fragili.


Vedete … attualmente una coppia raramente pensa a procreare. L'amore è visto come una compensazione, un donare reciproco fra due persone. Una volta, e per alcuni ancora oggi, nella cultura occidentale, così avanzata, così estrema, spesso così semplicemente e irrimediabilmente consumista ed economista (bilanci bilanci e bilanci, al punto che ti cureranno solo se …) nella cultura occidentale dicevo, se ci si amava, l'apice era il figlio. Ora è l'orgasmo … non commento, ma ci si pensi....


E per il resto la parola al lettore …


mercoledì 6 maggio 2020

LEONARD COHEN : "Happens to the Heart"


Vidi il video, e quindi ascoltai la canzone casualmente, appena uscì su youtube, circa sei mesi fa. Non è certo l'unico lavoro di Cohen a commuovermi ... anzi, per essere precisi, questo lavoro, lavoro di gruppo come poi spiegherò, va oltre. 
Ricordo Quando dal vivo alza gli occhi verso la videocamera e dice, con decisione e timore, con un soffio di voce "i'm your man...", un attimo indimenticabile.
Ricordo "Dance me to the end of love" nel video collegato forse arbitrariamente, ma comunque per me con fascino, con il magistrale tango danzato da Al Pacino nel film "Profumo di donna", un brano che sembra superato, già vecchio appena nato e invece tocca il cuore. Insomma, Leonard Cohen ha lasciato e lascia il segno. 
Il video dal titolo, "Happens to the Heart", l'insieme che esso è ... quindi testo, musica e immagini, è un mix capolavoro che mi sento in dovere di spiegare.

Vedete, noi usciamo da un'epoca assurda nella quale per esempio nel cinema, sembra su una moda lanciata dalla Francia, si dice che il film è sempre e solo del regista. Ma ... per esempio "La notte" di Antonioni, sarebbe comunque un capolavoro così potente senza Ennio Flajano e Tonino Guerra? Non credo. E film come "I vitelloni", "La dolce vita" ... cosa rimarrebbe senza Flajano? Si pensi solo al primo titolo. I Vitelloni. Essendo Fellini di Rimini, tutti, pensano che il termine sia riminese, e invece lo troviamo tuttora nel dialetto pescarese. Sta per vudellone, budellone, ovvero colui che passa la vita al bar a far niente (la parte di Sordi nel film). 
Altre opere sono collettive, ma ce le fanno passare come atto creativo di un singolo. Altro esempio, il video "Correre" che sembra essere di Anastasio, e invece è firmato con uno pseudonimo; William 9, e non so altro.
Con Cohen, ed esattamente con quel prodotto formato da testo musica e video che conosciamo col titolo di "Happens to the Hearth", la firma del poeta copre tutto e invece la musica dovrebbe essere di Adam, il figlio, e il video ideato e realizzato da Daniel Askill. Se l'insieme è un capolavoro (io la penso così...) nato dopo la dipartita del poeta, le sue parti non lo sono meno. Ottimo il testo, ottima la musica e il significato del video che va forte, va da solo, anche per chi non comprende le parole comunque semplici. Daniel Askill ha detto: "Volevo realizzare qualcosa che parlasse della vita di Leonard"... "poi aggiunge "Cohen come monaco zen" ... 

Iniziamo l'analisi tenendo conto di un aspetto del lavoro artistico che di solito viene trascurato. L'opera, quasi sempre, è almeno in parte, misteriosa anche per colui che l'ha creata. E' nata partendo da un'idea più o meno chiara? ok, ma poi è accaduto qualcosa che ci sorprende. Spesso l'artista si domanda, al termine dell'atto creativo ... ma cos'ho fatto! Lo accetta. E' uscito dalle sue mani, è parte di lui, ma quell'opera contiene anche parti di lui che non conosce. Noi siamo solo parzialmente consci. Essere artisti è prima di tutto scoprire se stessi con l'opera. Rido gajamente di chi non la pensa così. La definizione di artista cambia ad ogni epoca ed attualmente secondo me è questa. L'artista osserva la sua creazione, che è una parte di lui, e comprende sempre qualcosa in più di quel grande mistero che è l'io per noi stessi. Si arriva ad un limite, per esempio con Kafka, nel quale la visione diviene chiara, completa (dall'incontro con Dora Dymant) e la sua letteratura non ha più senso per lui perché tutto è stato compreso e non c'è più sofferenza. Ora è tutto chiaro, ora son giochi intellettuali ... ormai Kafka, verso la fine, era come il Buddha, immobile nella malattia, sulla panchina di un parco a Berlino intento ad inventare una favola per una bimba che aveva perso la bambola, ora poteva anche morire ... perché morire ... non era più morire.

Ed ora il video, che appunto secondo me non è del tutto chiaro al suo autore ... ma anche a tanta gente. Ho verificato quel che dico anche pubblicamente, su varie centinaia di persone.




Un uomo col cappello visto da lontano che cammina in un bosco.
Prima associazione ... Leonard Cohen portava sempre il cappello, non so se portava anche il cappotto o l'impermeabile.




La macchina da presa lo raggiunge. Un volto serio, un ragazzo, carnagione chiarissima. cappello, impermeabile e camicia bianca.
Mio pensiero ... Leonard era scuretto ... l'opposto ... questo è sicuramente biondo ...




Toglie l'impermeabile e lo getta ... è un gesto apparentemente senza senso. Perché gettarlo.




Toglie il cappello ...



... e lo getta. 
Ora non ho più dubbi. Mi sto inoltrando in una dimensione simbolica. Già gettare l'impermeabile nella realtà quotidiana avrebbe avuto senso se inteso come gesto di stizza, di rifiuto ... ma sommato al gettare il cappello....! Ho avuto un periodo breve della mia esistenza nel quale mi ero affezionato ad un berretto da baseball, quando dovevo andare a teatro, vestito elegante, mi sentivo nudo senza. Quindi quel gesto, gettare il cappello, per una persona (Leonard) che era abituata a portarlo sempre ... no ... non è più realtà, razionalità ... è simbolo. 
E già intuisco chi è quel ragazzo bianchissimo e biondo ... è un'anima ... si ... 



Via la giacca, e si capisce che è una donna. Non dal viso, ma dal seno che si intuisce. Ora ... la mente razionale rettifica la sensazione iniziale e dice ... ragazza. 
Sul piano simbolico no, non basta.

Mi spiego: All'inizio si ha un'idea maschile, quando vista di schiena, nella distanza, viene colta la prima sagoma. Penso che in quel frangente nessuno abbia dubitato del fatto che si trattasse di un maschio. L'inquadratura frontale non fa cambiare idea ... fino alla camicia ...che rivela il seno, ma per un attimo.
Il livello simbolico mi fa dire che non è né uomo ne donna, è un essere umano. Toglie pure la giacca e la getta ... si intuisce che toglierà tutto. Perché lo fa ?



Lo sguardo da serio si fa triste ... sbottona la camicia ... e la getterà.



Poi la canottiera, e nel frattempo i razionali hanno avuto altre conferme del fatto che è una donna.



Non vediamo volare via pantaloni, calzini, indumenti intimi e scarpe, ma comprendiamo che è nudo/a, nel bosco. Ora, non è più un bosco, ma la natura, il cosmo, ... e comprendo che i vestiti erano il corpo e l'anima se li è tolti rimanendo nuda. 




Ora lo stato d'animo evolve: dalla serietà è passata alla tristezza. Ora arrivano lacrime e disperazione. L'anima disperata.
E sul piano simbolico è tutto chiaro. L'anima, fin quando è stata nel corpo ... ha vissuto per il corpo e immaginato il dopo, ma del dopo non sa nulla. Ora, persa nel cosmo inspiegabile, nel quale ogni direzione sembra identica e il paesaggio invariabile, qualcosa deve accadere ...



disperazione ...



vede qualcosa ...



una persona vestita di scuro, sembra un religioso



Lo ricopre con un mantello 



e gli indica una direzione. L'anima è ricoperta, quindi protetta ...



Si nota sul viso una lacrima, rimasta dalla disperazione vissuta qualche attimo prima. Ora inizia un altro tipo di mistero. Quel che sembra un caos cosmico, non lo è. Esiste una via anche nel caos, e una via equivale ad un senso. 



il paesaggio si dirada



si apre in un panorama che corrisponde all'infinito e non si può più proseguire. Ma ora non esiste più la disperazione ... e chi non può proseguire ... 




si siede ... il paesaggio alla fine è sempre il medesimo ... quindi ...



dopo averlo osservato a sazietà ...



l'anima, ormai sicura della protezione divina, di un divino che intuisce ma ancora non conosce, chiude gli occhi.

Questa azione è importantissima. Anticamente i ciechi avevano il compito divino di guardare nell'interiorità, di ascoltare le muse, che dalla divinità ricevevano l'ordine di comunicare certi messaggi agli uomini. E' riduttivo pensare solo ad Omero, l'artista cieco per eccellenza. Abbiamo tracce anche più recenti, quasi fino ai giorni nostri. Nel volumetto "Costantinopoli", Arsenij Tarkovskij racconta di un cantore cieco visto al mercato in un paese della costa nord del mar Nero, siamo ai primi del novecento. La gente si avvicinava, lo ascoltava e lasciava dei soldi ... si badi bene, non un'elemosina. Ne "La tregua", lo narra Primo Levi. Indro Montanelli, in esilio in Albania decide di andare a conoscere "il cieco", il grande poeta. Dopo un pajo di giorni faticosi in groppa ad un asino, lo incontra: "ma non sei cieco!", "Qui si chiama cieco il poeta ..." e siamo se non erro, negli anni trenta del novecento.
Chiudere gli occhi per noi, in una quotidianità fatta di orologi impegni lavoro e lavoro e ancora lavoro ... è dormire, è sonno, riposare, staccare un attimo.
Per chi ha tempo, per chi ha deciso di avere tempo, per chi ha deciso di non correre come questa epoca ti chiede, e si ferma a ... pensare, per chi osa questo, chiudere gli occhi è pensare, concentrarsi ... e così il pensiero diventa meditazione che pian piano va da sola e ... 



qualcosa accade ... chi dal pensiero passa alla meditazione e si
lascia andare, si stacca dalla corporeità ... e simbolicamente lievita in una dimensione che ha qualcosa di divino.



Perché la scelta della levitazione come simbolo della spiritualità raggiunta ... 
Chiedetelo ad Inarritu che la "usa" in "Birdman", o a Paul Auster che ne fa una chiave fondamentale in "Mr Vertigo", o a Sorrentino che ne "La grande bellezza"  ... ecc

La nostra epoca ha scelto questo simbolo per rappresentare la spiritualità raggiunta. 

FINE DELLA DESCRIZIONE

Fate caso ora come la musica si leghi magistralmente alle immagini amplificandone il significato, e il testo, che cita Gesù, Marx, quindi religione e ideali sociali, e la vita quotidiana, tutto si lega e si ha ... il capolavoro.

Perché ho scritto questo pezzo. 
Perché mi son reso conto che questa opera non è stata compresa. Eccesso di raziocinio? (ho mostrato dove le vie della ratio e della sensibilità si separano ...). Penso di si ...
Nella nostra vita quotidiana la sensibilità è un ostacolo. Chi fa più facilmente strada nella vita? ... immaginiamo una parità di possibilità e raccomandazioni, talento e ricchezza fra due concorrenti ... colui che è freddo, amorale ( = senza una morale) va più lontano. La vita quotidiana è così, e seleziona i più freddi, quelli che una persona non la amano ma credono di poterla comperare ... per esempio. Ricordo negli USA le pubblicità della persona socialmente arrivata ... col bicchiere di superalcolico in mano, il sigaro e la biondona di fianco ... e il macchinone e la casona e ... la solitudine che troviamo nei quadri di Hopper (per esempio il tuffo in piscina). Tutto, tranne la solitudine, la trovate nelle loro pubblicità ... e la solitudine la vedete in riva ai bar, sui metro ...

E invece qualcuno che resiste c'è, e non lo fa ipocritamente. Vedete ... a lungo andare la maschera diventa il volto e chi la indossa ... essendosi dimenticato di togliersela tanti anni fa, non sa più nemmeno di averla.
Ci sono artisti che giocano coi simboli ... per esempio Sorrentino ...
Altri, come Leonard Cohen e Paul Auster ... non sanno fingere e pagano con la vita, soffrendo anche nelle opere, sbagliando, ma lasciando una scia luminosa di sensibilità che, se colta ... si fa contagiosa.

Amen

domenica 19 aprile 2020

W.G.Sebald - tre capolavori




Ho incontrato l'opera di Sebald per caso solo nel 2018 in primavera e questo mi rattrista. Se io, incallito lettore, ci son capitato davanti e in un mercatino dell'usato, incuriosito, lo ammetto, dal fatto che fosse tedesco, immagino la quasi impossibilità di queste opere di giungere alle mani di una persona che potrebbe aver la vita piena di altre faccende sensate e necessita di un qualcosa che seriamente elargisce consigli di lettura.
Presi in mano il libro, si intitolava Austerlitz, l'edizione era del 2002, aveva quindi diciassette anni. Lessi il poco che diceva la biografia, nato 1944, deceduto 2001, qualcosa di vago sui suoi studi a Norwich e decido, anche se non sono troppo convinto, di acquistarlo. I dubbi mi venivano dal fatto che ho pensato che si trattasse dell'ennesima descrizione-narrazione della celebre battaglia napoleonica. Le mie conoscenze storiche mi han dato la certezza che fra il narrato ufficiale anche dell'epoca, che è propaganda, e il fatto realmente accaduto, così come i miei studi me lo hanno rivelato (insisto du questo aspetto...), corresse un abisso. Non ero disposto a "spendere il mio tempo" in una ennesima versione di quel fatto. Fu comunque il prezzo, che aveva già subito un ribasso per mancanza di un interessato, come mi hanno detto che accade dopo due mesi di giacenza, fu il prezzo dicevo, a farmi pensare che per cinquanta centesimi potevo ben correre il rischio. Male che vada dopo poche pagine lo avrei relegato nello scatolone dei libri che poi porto a casa di un amico affetto da mania di accumulazione libresca non selettiva.
Arrivato a casa, del mucchio che avevo comperato, scelsi proprio questo "Austerlitz" per primo, perché ero già rassegnato all'idea che me ne sarei dovuto liberare in quanto saggio storico non interessante. Ma ... ho iniziato la lettura e ho capito subito che Napoleone e la battaglia non c'entravano per niente. Austerlitz è il cognome di un tipo che la voce narrante ha incontrato casualmente in varie occasioni in Belgio. Primo incontro ad Anversa nel 1967.  Le prime pagine erano interessanti e la descrizione della sua visita al nocturama di quella città, mi ha dato da pensare, come l'aggiunta di foto integrate col testo




 ... la sensazione era di profondità, ma non immediatamente abissale. La dimensione "sensibile" era stata appena sfiorata, la tempesta emozionale o quant'altro fosse nella mente dell'autore era stata scansata, ma ebbi la sensazione di un semplice rinvio. Si immagini una sonata in cui un tema già all'inizio viene appena accennato; una volta che abbiamo intuito che ha possibilità espressive interessanti, l'attenzione si fa totale.
Avevo tempo e per me un libro di 315 pagine, se merita, è questione di un giorno di immersione ... ed ecco che a pagina 133 inizia un crescendo irresistibile ... sono concentrato al massimo, vibro, mi lascio coinvolgere, poi travolgere e ... a pagina 151, arrivato al punto con le seguenti parole ... "... per così dire alla vigilia della morte." mi resi conto che ero commosso al massimo grado. Chiusi il libro, diedi un po' di cibo al cane e poi con lui m'inoltrai nel bosco. Ero agitato, soddisfatto, stremato. Avevo letto qualcosa di eccezionale e quando mi capita per un po' di tempo il cervello si blocca e non posso far nient'altro che esistere fisicamente. Ho camminato così, sospeso anche da me stesso, per un'oretta e poi, una volta rincasato, ho guardato quel libro con un rispetto tale che per quel giorno non son più riuscito a toccarlo. Non ero in grado di pensare, di elaborare, ma agii e telefonai al mio libraio di fiducia. In "bottega" non  aveva nulla di Sebald, e ordinò qualche titolo. La mattina seguente, dopo la rituale passeggiata canina, decisi di ricominciare da capo la lettura e di andare più lentamente. Da quando internet è diventato facilmente raggiungibile, il mio modo di leggere è cambiato. Quando si cita qualcosa che non  conosco, un monumento, un evento, un personaggio, ecco che sospendo la lettura e mi informo. Ho iniziato osservando la stazione di Anversa, che viene accuratamente descritta, poi quella di Luzern con immagini dell'incendio che la voce narrante racconta di aver visto, eccetera. Passai poi al tribunale di Bruxelles e a tanti particolari che mi fecero comprendere meglio la situazione ... fino alla Liverpool Station di Londra. Rivissi la salita emozionale che inizia a pagina 133 e di nuovo mi arenai in quel punto di pagina 151 ... ma ora, poiché si trattava di una rilettura, la mia reazione fu più contenuta e colma di un'ammirazione che per autori recenti ho provato raramente, ed esattamente con: Coetzee ("Vergogna"), Auster ("mr Vertigo", "Ho creduto che mio padre fosse Dio"), Paola Capriolo ("Una luce nerissima"), Sebastiano Vassalli (Un infinito numero").
La lettura completa fu portata a termine in serata e ad oggi che son passati dieci mesi da quella prima volta, Austerlitz l'ho letto quattro volte perché penso che un capolavoro deve essere letto e riletto per esse interiorizzato. La prima volta si scopre la trama e si vive la grana grossa di un'emotività scomposta, poi ci si muove fra sensi e sfumature fino a "sentire" non tanto la struttura, che comunque è un piacere ma di natura intellettuale, fino a "sentire" dicevo, il motivo profondo che ha spinto l'autore e scrivere l'opera.
La vera arte non è commerciale. Fai l'opera, che sia letteraria o musicale o pittorica nulla cambia, fai l'opera dicevo, perché è impellente per TE la necessità di liberare quella parte di TE che ti pesa, che non ti lascia in pace. Quando sento parlare di arte commerciale (Andy Wahrol conió questo non sense) rido amaramente. L'arte non ha nulla a che fare col commercio. Se poi in un secondo tempo accadesse che l'opera fosse in grado di arricchire editori e autori, ben venga, non guasta, ma è un effetto secondario come la neve in un giorno di primavera ad Osaka mentre passeggio fra ciliegi in fiore ... quella neve ci sta, rende tutto più ... completo, ma lo sappiamo che sono i ciliegi in fiore il motivo che ci ha portato li nella speranza godere, di comprendere una sensazione antica.

Lo scorso anno (2019), seduto in una serata estiva assai torrida a Panicale, con conoscenti provenienti da vari stati nordici, e fra i quali i tedeschi abbondavano, quando mi chiesero, come spesso accade, cosa avessi letto di bello di recente, al mio nominare Sebald, mi guardarono sorpresi. Non sapevano niente di lui. Diedi tre titoli: "Gli anelli di Saturno", "Migrazioni" ed "Austerlitz". Mi dissero che erano veramente sorpresi e li comprendevo. Sapevo che molti di loro erano lettori seri ed affidabili. E vien da pensare con stupore ... com'è possibile che gente attenta alle arti, di Sebald non sappia niente!
E questa domanda me la son fatta non solo per Sebald ma anche per gli autori che ho citato prima, ovvero, Coetzee, Paul Auster, Paola Capriolo e Sebastiano Vassalli. Il primo mi risulta che sia letto all'estero e molto lo deve a quel propulsore commerciale che si chiama Nobel. Paul Auster è indubbiamente letto negli USA dove abita, ma forse dovrebbero leggerlo di più, e in Italia per esempio, mi son reso conto che è quasi sconosciuto.  
Vassalli, in grazia di un premio Strega assegnatogli anni fa, è noto per un'opera gradevole ma che non è la sua migliore e, vittima della sua morte, attualmente è nell'oblio. La Capriolo mi risulta sia viva e schiva, ma quasi completamente sconosciuta.
Come può accadere che la qualità nasca e nessuno ce la offra? e nessuno ci dica guarda che si tratta di un gioiello? ma ... la critica, l'editoria ... sono impazziti? non si rendono conto che la qualità, quella vera, quando si mette in moto, se un poco la aiuti rende veramente tanto e ci rende veramente,  ma veramente migliori ... più sensibili? Si pensi al mio solito esempio, al solito Franz Kafka. Kurt Wolff, il suo editore, pubblicò le sue prime cose. Tirature da mille copie che non furono nemmeno esaurite ... ma, chi aveva i suoi diritti ... quanto è ingrassato nel novecento! Saper cogliere la qualità dovrebbe essere un vantaggio per il commercio, una vera rendita e, per me prima di tutto e per gli individui tutti, un'occasione rara di crescere in sensibilità. Spesso mi son sentito dire che la nostra epoca non ha più grandi scrittori ... impossibile. Manca l'onestà di chi sceglie e che ritiene che, se si è potenti o ricchi (non sono sinonimi ... la ricchezza è il potere dei poveri, il potere dei veri potenti è stabilire le leggi) qualsiasi cosa che farai sarà considerata saggia. Ma per esempio Lorenzo il Magnifico ... era un'eccezione, non la regola. Per comprendere un artista serve ... un altro artista e Lorenzo lo era. L'epoca d'oro della Einaudi per esempio, terminò con Pavese. Coloro che coprirono successivamente il suo ruolo non valevano un suo dito ... eccetera.

Propongo ora brevemente una chiave di lettura. Per comprenderla è necessario aver letto tutti i tre testi visibili nella foto che apre questo scritto.
Si immagini una persona immortale. Per essa tutto è transitorio. Impossibile legarsi ad una persona, ad un luogo. Tutto sarebbe un incessante divenire ... intollerabile, e i legami, col territorio, con una casa e anche solo con un oggetto, e pure con una persona, divengono insensati. La vita umana, causa la sua brevità, sembra esclusa da questa sgradevole sensazione che io interpreto come la solitudine estrema. Ma ecco che Sebald ci dimostra che anche nel tempo della vita di un essere umano, questo divenire che lui addensa nel vocabolo "distruzione" e che siamo soliti non percepire, è invece tangibile e altamente destabilizzante. Non la morte diviene il problema esistenziale, ma questo divenire che accade tramite distruzione e rinascita continui, che si tratti di una città, di una vita individuale, di un paesaggio. Un passo notevole è in "Gli anelli di Saturno" a pagina 276, cercare su internet "great storm of 1987" e si rimarrà colpiti da quel che accadde. La voce narrante alla finestra della sua casa in East Anglia. Si alza un vento fortissimo. I vetri sembrano non resistere. Chiude gli occhi e ... dopo poco quando li riapre, tutti gli alberi davanti al suo sguardo oltre il vetro indenne, e poi, scoprirà, nella regione, son caduti, silenziosamente sradicati, piegati pian piano, senza tonfi, senza rumori drammatici ... senza dramma. Il caso mi offrì una coincidenza ben strana. Lessi quelle pagine pochi giorni dopo la caduta degli alberi sulle alpi venete e trentine. Era il primo novembre del 2018 ... Vissi sia dal vero nel mio tempo presente, che nella letteratura, quella sensazione di fragilità direi cosmica, che Sebald descrive come parte costituente ormai consapevole dell'umanità e del pianeta. Tutto cambia incessantemente... l'assenza di un minimo di stabilità, sia nella natura che nelle costruzioni dell'uomo che questi tre libri descrivono, (come la cattiveria dell'Uomo raccontata e non giudicata nella disavventura di Roger Casement che equivale alla continua distruzione di un mondo moralmente accettabile), tutte queste insicurezze ... e pur si vive, ... e pure ... Sebald ebbe il coraggio di diventare padre ... nonostante la sua sensazione angosciante di un divenire distruttivo ebbe il coraggio di esistere con una consapevolezza, con un senso della vita, assai arduo da sopportare. 



... e Sebald, che pure è morto troppo presto, scivola via e apparterrà ai pochi che avranno dalla loro la incomprensibile legge del caso.

FRANZ KAFKA - "IL CACCIATORE GRACCO" : una chiave di lettura


L'estate scorsa, ricordo che era una mattina di giugno, mi inoltrai nel bosco col cane. Era ancora fresco e camminare era un piacere. Non pensavo a nulla di particolare … sarei arrivato dopo circa tre chilometri, al solito bar, mi sarei seduto ad un tavolo esterno condividendo la brioche con Philly (cane), e incantandomi come un bambino ad osservare le navi che entravano nel porto, spesso talmente grandi da mettere in ombra tutto il paesino. Mi godevo la sensazione puramente psicologica, per nulla reale, di fresco che questi giganti del mare lasciavano al loro passaggio. La nave container che giungeva da Catania … chissà se era la sua mattina … ed ecco che nella mente fa irruzione la soluzione … Ecco "il cacciatore Gracco" compreso!!! Il primo pensiero fu per Sebald che, come me, dedicò anni per comprendere. Il libro "Vertigini" racconta di questo sforzo in cui si concentrò su un aspetto biografico che assillava Kafka: il matrimonio ... ma più del matrimonio un altro livello dell'esistere era ormai consapevolmente ed irrimediabilmente suo.... 
Quella mia comprensione fu un evento così inaspettato che rimasi sbalordito. Camminai silenzioso e intimorito, meditando e rimeditando quel che dal mio emisfero destro era uscito. 
Kafka era malato. Ormai sapeva che per lui non ci sarebbe stato scampo. Se si è malati terminali, si sa che è finita e si può anche prevedere con buona precisione, per quanto tempo si sarà ancora nel mondo dei vivi. Ma … e questo pensiero la mia mente mi donò quella mattina … se si è malati in modo irrimediabile, si è sì vivi, ma non si è più nel mondo dei vivi come gli altri. Si è sulla barca della morte ma ancora fra i vivi. Ecco tutto, ecco il significato che mi era sempre sfuggito. Quel racconto lo lessi la prima volta che avevo quindici anni. Mi sorprese la scrittura assai semplice; questo aspetto sempre sconcerta il lettore inesperto. Dietro alle "cose" semplici sembra che non ci sia nulla di più di quel che vedi … o leggi … ma ero già appassionato di Borges e ricordo e ricordavo queste sue parole a memoria. "Scrivere in modo semplice è una meta. La semplicità della grande letteratura contiene in sé una segreta complessità" … e Kafka è sempre semplice in modo disarmante. Si può aggiungere un aspetto che complica il suo specifico tipo di semplicità. Nella sua opera, ogni parola, ogni aggettivo, tutto, è calibrato con precisione. Nulla, assolutamente nulla, è li per caso. Tutto è in funzione del significato. Se si pensa che un racconto così concepito sia più semplice da comprendere o anche solo da leggere, ci si sbaglia … e questo l'ho compreso da anni. Nel linguaggio parlato, quello che usiamo con gli altri ma anche con noi stessi, manchiamo di quella precisione … e in fondo nella quotidianità non è necessaria. Ricordo per esempio un fatto capitato in Umbria; quell'unica persona che faceva i biglietti e anche da guida in un ottimo museo di cose etrusche, spiegava con una esattezza impressionante e un alone di freddo lo circondava. Dopo aver sentito descrivere vari oggetti, feci una domanda. Mi disse con un moto a fatica trattenuto di stizza, che me lo aveva già detto prima. In quel momento sentii che quell'alone di freddo si era trasformato in incapacità affettiva, in solitudine … e che,  con un cervello dotato di una leggera forma di autismo, quella precisione, si trasformava, lo trasformava, in un essere che sembrava inarrivabile per perfettibilità, ma anche per nulla meritevole di una sana invidia di quelle che ti fanno venir voglia di migliorare. Gli feci presente che lui era ad un livello elevatissimo e assai raro. Mi disse che se non ero preciso non voleva dire che lui era migliore … (sottinteso, non ti stai sforzando abbastanza, non fai sul serio ecc). Verso la fine della visita si scusò. Mi disse che gli avevano fatto notare varie volte che era troppo preciso e questo infastidiva i visitatori … gli strinsi la mano e lo ringraziai, aggiungendo che era stato la miglior guida che avessi mai avuto.
Ecco quel che ci accadrebbe se decidessimo di utilizzare un linguaggio necessario e sufficiente, come si direbbe in matematica. Si risulterebbe freddi, anaffettivi, irraggiungibili sì, ma con nessuno che desidererebbe raggiungerci.
In letteratura, come nelle scienze invece, si può. E Kafka aveva studiato accuratamente una scienza umana, il diritto, che fa un uso molto preciso del linguaggio e spesso, nonostante le attenzioni dei giuristi, rimane un velo di ambiguità che complica le interpretazioni perché la lingua, creatura umana, è per quanto si lotti, perfettibile ma imperfetta . 
Kafka aveva poi scoperto lo strano rigore degli studi ebraici nei quali si era inoltrato. Il suo nonno  materno, calato nell'ebraismo fino alla santità, faceva il bagno purificatore tutti i giorni nel fiume … anche da vecchio, con la sua fluente barba bianca, scendeva alla Moldava, rompeva il ghiaccio e si purificava, in un paesaggio di kavke infreddolite, l'uccello al quale il grande scrittore doveva il cognome e che il padre, per allontanare l'aura ebraica ed attirare più clienti in negozio, trasformò da kavka in Kafka. Questa amorale occidentalizzazione fece soffrire una generazione di giovani ebrei non solo a Praha, ma lì particolarmente. Praha fu sempre il subcosciente di Wien, ed ecco un esempio: Quando Mozart ebbe ultimato il "Don Giovanni", l'imperatore non acconsentí che fosse rappresentato in quella città che aveva la corte, poiché un dramma che avesse per soggetto la scandalosa immoralità di un nobile, portata all'estremo come in quel caso, era fastidiosa ... per un nido di nobili. La prima avvenne a Praha ... e fu un successo. Torniamo al nostro scrittore: Franz Kafka era più mondano, più vivo, almeno all'inizio della sua esistenza, di quanto ce lo facciano apparire le biografie. Giocava a tennis, girava in moto (gliela prestava lo zio scapolo e medico) ed ebbe varie storielle con ragazze. Poi la sua esistenza si scontrò con la amoralità del mondo che lo circondava ed iniziò ad andare, con delicatezza, controcorrente. L'apice dell'amoralità fu comunque toccata da un fratello della madre, Joseph Loewy, che si imbarcò nel 1891 per il Congo, allora proprietà personale del re del Belgio, e partecipò al massacro che venne attuato per produrre gomma e legname. Un caso simile a quello di Eichmann, che personalmente non aveva ucciso nessuno, ma collaborò in un sistema che uccise. Riceverà direttamente dalle mani di re Leopoldo la medaglia d'oro dell'ordre du Lyon Royal. 
Notate una casualità. Loewe vuol dire leone in tedesco, e Levi (tribù con oneri sacerdotali) si germanizza prendendo le sembianze, Loewy, del leone. Il premio ricevuto ha come simbolo un leone di ben altra natura, vorace e sensibile solo ai bilanci. Joseph Loewy, non può non aver visto i mucchi di mani che vennero tagliate ogniqualvolta gli schiavi del Congo non avessero raggiunto la quota di produzione programmata … e quella generazione di ebrei praghesi, sapeva molto, forse non tutto, ma giunse al punto di non accontentarsi più del brillio dell'oro nelle banche. Rallentarono il ritmo delle loro esistenze ormai dedite solo all'incremento del guadagno secondo l'insegnamento della generazione di padri .... anzi, dei nonni, e si rivolsero alla religione ormai perduta ed incomprensibile. Si pensi che per gli ebrei praghesi, Gregor Samsa, il protagonista de "la metamorfosi" era una ben precisa persona che vedevano vagare per Praha; si trattava del fratello dello scrittore Jiri Langer. Di famiglia distinta, prese il treno e si inoltrò ad est. Cinquecento chilometri in quindici giorni per arretrare  di cinquecento anni e toccare con mano la vita che vissero i suoi antenati. Una vita che al primo viaggio non sopportò. Tornò alla capitale frastornato ma poi, al secondo tentativo riuscì a rimanere e visse la realtà chassidica dei rabbini magici, una dimensione che possiamo comprendere leggendo certe opere di Isaac e Joshua Singer. Tornò a Praha col caffettano lungo, i cernecchi e vegetariano. Era il reietto per la sua famiglia, una vergogna per tutti i padri, indicato con riprovazione per strada e un esempio di coraggio per i coetanei ... era il primo vagito di una rivoluzione giovanile generazionale vera, che noi conosciamo in modo superficiale e folkloristico per i soli eventi del '68. Questo pensavano i praghesi ebrei, che Gregor fosse la storia simbolizzata e ridotta all'osso, di quel loro insopportabile reietto che osava riesumare una dimensione morale altamente condannante poiché dimostrava che i valori originari erano stati barattati con un'apparenza sicuramente linda, ma basata su una insensata accumulazione.
Un Kafka che, come Paulo Coelho, decise di andare più piano della sua epoca, che volle tanta azione del pensiero (Coelho si identificava serenamente in una lumaca), andò ben oltre quel che gli ebrei praghesi videro col suo Gregor Samsa concretizzato in un'avventura individuale ... ma anche con Carl Rossman e con il cacciatore Gracco andò oltre e si fece parabola. Dai diari (vado a memoria perché non li ho qui con me …): "Lavorare: togliere ogni giorno un pezzo di carne ad un corpo capace di felicità … scrivendo". Sognava la liberazione da quella schiavitù temporanea che era ed è, il lavoro dipendente. La malattia gli donò questa possibilità, ma lo mise anche sulla barca dei morti. Vagare su di essa … e il dialogo con le persone si fece finto, insensato, irreale. Che dire al sindaco di Riva se nulla era più misurabile col medesimo metro esistenziale? Poteva solo raccontare del suo viaggio. 

Trovo sia molto importante comprendere come sono arrivato alla soluzione di questo racconto-enigma che, fateci caso, una volta risolto sembra di una semplicità disarmante al punto che è lecito domandarsi perché non ci si è arrivati subito.
Da anni non ho dubbi sulla qualità di Kafka. Se questo dato non è mai in discussione, allora la mancata comprensione era da imputarsi ad un mio limite. Questo ragionamento mi ha fatto perseverare nella lettura e rilettura dell'opera di Kafka e, molto spesso, anche tre volte all'anno, di certi racconti che per me sono un capolavoro di profondità e semplicità, due mete che mi affascinano. Nella mia mente quindi, la domanda sul senso di quel racconto, fu ripetuta talmente tante volte da essere diventata, inconsciamente, un'esigenza fondamentale. La parte destra del cervello, si sa da anni, lavora spesso da sola; come un angelo custode vive con noi, ma va oltre la quotidianità. Mentre passeggio col cane e ho la sensazione di donare al mio corpo un momento lievemente ginnico, e di riposare la mente in vista del ritorno a casa e dell'immersione nello studio quotidiano, mentre penso e vivo questo, una parte di me, che posso considerare come un crogiolo, raccoglie tutto, lo misura, lo confronta, e mi offre le soluzioni che con più urgenza chiedo … anzi, che con profonda verità so chiederle.
La mente spesso fa così. Fior di scienziati raccontano di essere giunti a soluzioni importanti in grazia di una visione improvvisa o di un sogno. Kekulè sognò un serpente che entrava nell'esagono del benzene e vi si adagiava in forma di cerchio. Poincaré raccontò in pubblico durante una seduta della Societè de Psycologie quanto segue … "... i casi della giornata mi fecero dimenticare il mio lavoro di matematico. Giunti a Coutances, prendemmo un omnibus per andare da qualche parte. Nel momento in cui posai il piede sul predellino mi venne l'idea, senza che nulla dei miei pensieri precedenti le avesse apparentemente aperto la via, che le trasformazioni che avevo usato per definire le funzioni fuchsiane, erano identiche a quelle della geometria non euclidea".
Gauss, riferendosi a un teorema di aritmetica che si era sforzato inutilmente di dimostrare per anni, scrisse: "la soluzione del problema mi si presentò come una folgorazione improvvisa. Io stesso non so dire quale sia stato il filo conduttore che collegò ciò che già sapevo con ciò che rese possibile il mio successo".
Einstein raccontava che spesso le soluzioni gli apparivano nitide alla mente mentre si radeva e in conseguenza della sorpresa spesso si tagliava.
Ed ora concludo gli esempi con Helmholtz: le soluzioni più interessanti "... arrivarono improvvisamente, senza alcuno sforzo da parte mia … amavano presentarsi nella mente specialmente mentre camminavo senza fretta su colline boscose in una giornata di sole". 
Si noti quanto il caso di Helmholtz assomigli al mio … Ognuno di noi ha un momento della giornata nel quale si rilassa, o crede di farlo, ma accade solo parzialmente. Ma io, a differenza delle persone che ho portato ad esempio, non sono uno scienziato. Mi muovo forse spesso in quei settori della mente che qualche peccatore in superbia ama definire scienze umane. Penso ad Heidegger che camminava nei boschi e, in chiave umana e non scientifica, consciamente e inconsciamente, elaborava una strategia dell'esistere. Penso a scrittori che si svegliano con un sogno appena sognato e talmente vero per loro, nel senso del significato profondo, che basta trascriverlo il più fedelmente possibile … oppure quel giorno che, leggendo un testo di storia medievale sulle vie di pellegrinaggio, mi domandai come si potesse rendere nuovamente importante, nella nostra epoca, quel camminare antico, e mentre bevevo il caffè che mi ero appena preparato ebbi un'idea che si chiama ora "Dieci quaderni".
Ci basta un esempio semplice, quotidiano, per comprendere come funziona il nostro cervello in queste situazioni. Capita a tutti di aver dimenticato per esempio una parola, mettiamo per esempio il nome di una città, e lo sappiamo che se ci intestardiamo a ragionarci su non si arriverà a nulla. Se invece pensiamo ad altro ecco che improvvisamente quel nome, che in noi era depositato ma irraggiungibile, appare. Proust stesso nella sua mirabile Recherche, ci descrive una situazione simile. Il sapore dell'infuso di tiglio, sommato ad un boccone di madeleine appena arrivato a contatto con le papille gustative, innescò qualcosa di indefinito che dal profondo non riusciva a salire. Bevve ancora e diede un secondo morso al dolce e ancora niente, allora decise di pensare ad altro perché spesso questo aiuta, ed ecco che … appare il giardino di zia Leonie la domenica mattina prima della messa e … tutto il mondo del ricordo.
Con "Il cacciatore Gracco" la mia mente ha agito proprio come accadde ad Helmholtz, ma il suo mondo è scienza, il mio è morale. A lui servono esperimenti e calcoli, a me, come ad Heidegger o agli Scrittori, serve un'esperienza vissuta ed elaborata. 
Nel caso specifico di questo racconto due sono le esperienze vissute ed elaborate. Una mia malattia recente che ho vissuto minuziosamente, e la dipartita di una persona cara.
Mi si potrebbe far notare che a molti queste disavventure son capitate e che forse è qualcosa di mio, di personale, che fa la differenza … e io penso che non sia così. Davanti alla malattia vissuta e vista vivere, e davanti alla morte dell'altro, è fondamentale elaborare, soffrire. Trovo che da sempre, tante persone davanti a certe esperienze pensino solo a dimenticare, a scappare ... e non rielaborano ... ma tutti potrebbero. Non dico che meditando, certi fatti acquisiscano un senso, ma almeno si impara, e a me sembra sia accaduto, ad accettare. Chi non elabora vive nel presente o al massimo proiettato nel futuro. Leggere il Cacciatore Gracco è l'esperienza davanti alla morte non imminentissima, ma ormai fattasi concreta, irrevocabile, di un essere umanissimo abituato a meditare, e l'ho potuto comprendere meditando sulla mia esperienza. Io considero i grandi scrittori come compagni di viaggio dei quali il corpo è assente, ma il pensiero mi guida, mi aiuta nelle rielaborazioni del vissuto ... consigli di un amico della cui saggezza non dubito.

Grazie .... Kafka

mercoledì 12 febbraio 2020

I GABBIANI DELLE 17 (racconto)

Il mio primo datore di lavoro fu Remigio. Meglio dire compagno ... di lavoro, poiché era grosso, gentile e talmente accomodante e sereno che stavo meglio con lui che a casa. Me l'ero trovato da solo quell'impegno estivo. Facevo la prima superiore, non amavo ancora in modo così totalizzante la letteratura e desideravo fare qualcosa che mi portasse qualche soldino in tasca. Remigio gestiva un bar vicino al molo, non ricordo più quale nome avesse allora e non so se quello attuale sia il medesimo. Mi ricordo che entrai, molto intimidito. Erano presenti vari signori, alcuni assai distinti, e aspettai con la scusa di un caffè, che all'età di quindici anni proprio non mi piaceva ma faceva adulto quindi dovevo resistere ... e dunque aspettai, e quando capitò il momento in cui rimanemmo soli, azzardai la richiesta. Un leggero sorriso e poi mi disse "vieni qui, vieni dietro al banco. Io non sono così alto. Grosso si ma alto no!" Vidi così che la parte dietro al bancone era rialzata e mi fece sorridere. Non ero Pinocchio con Barbablu ora, ma un ragazzetto di fronte ad un gigante buono e che ci teneva a farlo capire. Stetti dietro al bancone un'oretta. Mi spiegò alcune cose poi mi disse "vai a casa, dì che hai trovato lavoro e vieni domattina. Io apro alle cinque, ma tu vieni alle otto ... anche alle nove se non riesci ad alzarti presto!" Il giorno dopo ero li alle cinque e fu un gioco, quel lavoro, che durò una stagione. Mi ricordo che Remigio amava una certa birra, la Monchshof, e che se c'era la moglie non la toccava perché lo sgridava per via della pancia che era effettivamente grandiosa. Appena lei spariva, prendeva una di quelle birre. Erano 33 cc, poca roba per due bicchieri, ma mai beveva da solo. In un pomeriggio il rito poteva ripetersi anche cinque o sei volte. La birra non mi piaceva, quella parte laterale della lingua che apprezza l'amaro in me non era ancora attivata ma ci tenevo a sembrare uomo ...  arrivavo a casa brillo e divertito e riuscivo sempre ad non fare capire niente alla Grande Madre Terribile. 
Ma con Remigio il ricordo più bello è quello dei gabbiani. C'era un tipo molto elegante che aveva un tre alberi che sembrava un vascello d'altri tempi che si chiamava Bampuschka. Ricordo il nome perché per me quella barca era un oggetto che dal mito si era stabilito nella realtà. Mi ricordava Colombo e Drake che alla mia età non eran storia ma favole d'avventura. Avevo già conosciuto gente ricca, ma lui, il tipo elegante, fu il primo che conobbi, che non si curava di nasconderlo, ed era simpatico. Trattava me ragazzino da piccolo uomo. L'umorismo che aveva con gli altri, che erano adulti, non cambiava con me e mi invitò anche su quella barca per me magica.
Remigio e Gianni, che si faceva chiamare Jo solo da Remigio e me e in segreto, come a dire che solo con noi sarebbe stato se stesso, quasi ogni pomeriggio mi chiedevano "ci riesci da solo al banco per un attimo?" e senza attendere risposta, perché erano certi che ero in grado, si infilavano nella porticina di fianco alla Faema e attraversando il piccolo magazzino raggiungevano, attraverso una seconda porta assai sgangherata, uno spazio aperto nel quale troneggiavano una lavatrice scassata nella quale spesso dormiva un gatto, poi cassette piene di bottiglie vuote e delle reti da pesca. Portavano con loro le brioches rimaste dalla mattina e si sedevano su due cassette, sbriciolavano e lanciavano, e dal nulla, dal vasto cielo azzurro apparivano i gabbiani che docili come galline, mangiavano a sazietà. Avevo capito già da un pezzo che Remigio ordinava più brioches proprio per rendere legittimo quel momento che capivo e non capivo. Un uomo ricco e adulato quindi potente e un gigante buono che conosceva tutti ed era appagato, passando da due porte attraverso il mondo intermedio dello scalcinatissimo magazzino, entravano per una mezz'oretta, in una dimensione senza tempo. L'unica cosa mobile era il verso dei gabbiani che non sapevano tacere. Spesso li osservavo, se il lavoro me lo permetteva e li vedevo immobili, come allucinati, seduti sulle loro cassette anche quando le briciole erano terminate, e i gabbiani ora silenziosi e immobili, uno spesso sulla spalla di Remigio, fermavano il tempo. Un luogo irreale, più vero della vita. tutto immobile ... e tutto diventava eterno. Io furtivo tornavo al banco e appunto capivo e non capivo. 

Son passati quarant'anni. Il bar lo gestisce il figlio di Remigio che almeno nell'aspetto somiglia a suo padre ma ha meno pancia. Non entro mai quando ci passo davanti, perché ho timore di trovare tutto troppo diverso dal ricordo. 
Curiosamente oggi non ho il cane. Devo andare in banca, è troppo caldo e quindi non posso lasciarlo in macchina e, quando ho finito con gli impegni decido di passare da dietro, da quella stradina che stradina non è e da tutti è considerata una scorciatoia o un posto in cui si potrebbe parcheggiare la macchina. Lo spiazzo è ancora uguale. Erbacce, vecchie casse ... la lavatrice scassata non c'è più ma è il "luogo", lo sento. Mi sento pronto per essere trasportato in quel tempo ... ma non ho la brioche, mi dico. Vado in un bar li vicino, da Ivana, ne prendo tre e torno. Quel retro, da appunto su una stradina sgangherata nella quale non passa più nessuno, perché il ristorante di Filippo che sta di fronte, roba da fighetti, in cui mangiò anche il principe di Monaco, è tristemente chiuso e l'alternativa da percorre per pedoni e macchine, è più ridente, perché mostra le pescherie, i pescherecci e l'acqua del canale marino. Siedo su una cassa, il muro bianco e screpolato di fronte, il silenzio ... mi sento bene, tolgo una brioche dal sacchetto e la sbriciolo. Lancio ... e non accade nulla. Quasi mi assopisco e un'ala mi sfiora il viso ... davvero ... eccone uno, e poi un altro e commosso vedo tutto, tutta la vita, la mia, la tua, nell'eterno ritorno dei momenti belli, rarissimi ma inscalfibili, e finalmente comprendo Jo e Remigio, divintà bonarie della mia prima adolescenza ... li comprendo ora e li eterno, li premio della loro gentilezza verso il ragazzino che conobbero e rispettarono, con questa manciata di parole. Ora, come loro, calmati gli ardori, la fretta dell'esistere per avere, che non m'interessa più da un pezzo, sono uno di loro ... accolto dai gabbiani.

(Scritto di getto dalle 8:30 alle 9:30 del 12 febbrajo.
Forse è il caso di dire che è tutto vero? In un'epoca in cui le coincidenze sono considerate solo ... coincidenze, oppure come nel caso di Paul Auster, L'unica traccia, per lui sufficiente, del divino, meglio ricordare all'incredulo che esistono segni che toccano il cuore, esistono momenti in cui si può sospendere il tempo e andare oltre a tutto, oltre alla banalità del quotidiano ... )

mercoledì 22 gennaio 2020

Consigli di lettura di alcuni scrittori di origine ebraica ad un conoscente


Ciao ... Volevo dirti alcune cose su Canetti ... regalare un suo libro secondo me non è sufficiente ... serve qualche parola di presentazione ...
Era nativo di Ruse. Se cerchi il paese così com’è scritto su “La lingua salvata”, mi sembra Ruschuk, non lo troverai mai.
Ebreo  sefardita, parlava in casa lo spagnolo antico ai primi del novecento, conobbe l’ebraico per fare il Bar Mitzvah. Essendo nato in una città di confine, conobbe il bulgaro perché lingua di Ruse, ma anche il romeno perché era necessario. Faceva parte dell’Impero Austro Ungarico quindi il tedesco, lingua letteraria per eccellenza, era fondamentale anche per accedere a una parte consistente dei quotidiani. Siamo a cinque lingue … per un bambino. Arriva la sesta, l’inglese, quando col padre si sposterà in Gran Bretagna.
Quel che ho scoperto successivamente vivendo, è che effettivamente un ebreo medio conosce minimo tre o quattro lingue. In più la tradizione letteraria (non religiosa) è fortissima. Solo il Russo, che si identifica nell’essere ortodosso e nel conoscere la sua cultura artistica, ci si avvicina mantendendosi comunque ad anni luce di distanza dall’ebreo dotato di famiglia allargata, fenomeno che accade assai spesso. Ti faccio un esempio. Detto con umorismo, eccoti un denominatore comune fra terroni ed ebrei … immagina un figlio che dice con la madre “mi piacerebbe studiare ad Halle” … vedrai la madre meditare un attimo e dire “abbiamo un cugino del nipote dello zio del nonno che ci abita, non è un problema! Un ravennate, quando ha un parente che abita lontano è a … Bagnacavallo. Su questo si basa la forte mobilità di ebrei e abitanti del sud Italia, poiché spesso spostarsi si riduce alle sole spese di viaggio.
Canetti poi aveva un Talento quasi unico. Amava ascoltare e usciva spesso col solo intento di trovare qualcuno, anche casualmente, che gli raccontasse qualcosa. Era il suo modo di vivere, di sentirsi vivo.
Come ti ho accennato, come scrittore (che secondo me è colui che inventa come per esempio fece Kafka ne "la metamorfosi", era una schiappa. Non si rassegnava a questo e spesso col rifilare il suo romanzo da leggere a questo e a quell’altro, risultava fastidioso … ma come non perdonare una persona che, se avevi necessità, e a tutti capita, era disposto ad ascoltarti anche per tutta una notte!
Massa e potere è interessante ma, come hai potuto constatare, la sua dimensione ideale è il raccontare anzi, raccontarsi. Conosco altri casi. Primo fra tutti Thomas Bernhard e anche in questo caso si tratta di una serie di libri.
Posso citarti un altro caso veramente interessante: Oliver Sacks. Anche lui ebreo, di Londra, racconta se stesso prima di tutto in “Zio Tungsteno”, poi prosegue con “In movimento” al quale aggiungerei il diario di “Oxaca”. Anche in questo caso, nel primo volume, hai il racconto veramente ben scritto, di un bimbo ebreo che cresce in una famiglia allargata in un’epoca che vede solo famiglie nucleari con i nonni ormai incarcerati negli ospizi (mettere in galera la memoria! Folle!)
“Alla corte di mio padre” e “nuove storie alla corte di mio padre” di Isaac Bashevis Singer offre invece uno spaccato interessante, sempre in forma di racconto di quel che accadeva in via Krochmalna a Varsavia. Isaac vinse il Nobel per la letteratura ma ci tenne a dire che il vero grande era il fratello. Ho verificato ed è vero. Joshua Singer con, per esempio “La famiglia Karnovskij”, “Acciaio contro acciaio” e “La famiglia Ashkenazy”, per mezzo dell’invenzione letteraria, sa colpire mente e cuore come ormai per mezzo di un romanzo mi accade raramente.
Questi consigli di lettura possono riempirti la prossima estate … Per me viaggiare ormai è più affascinante per mezzo della lettura o rilettura di un capolavoro che non col vero viaggio. Ormai l’ovunque si assomiglia troppo … ovunque, e solo un io interiore secondo me, o l’affetto di un cane, possono ancora sorprendermi.

Dimenticavo ... è importante 
Sto tentando di non dire più "ebreo". È più corretto dire "di religione ebraica".  La parola "ebreo" purtroppo, nella percezione comune, ha più un valore di razza; dato assurdo, poiché una persona di religione ebraica o di origini ebraiche è di aspetto identico al nostro. Alla massa però basta questo ragionamentoche non va oltre la superficie problema. Per esempio un nero ... è differente solo per il colore della pelle, ma umanamente e per capacità intellettive, è esattamente come noi ... quindi per chi ama pensare sul serio, nemmeno l'aspetto esteriore può essere una discriminante e non può quindi rappresentare un dato per definire una razza. Un cocker e un san Bernardo, per tutti sono della stessa razza, ovvero cani. Per quelle medesime persone che hanno questa visione peraltro corretta su due cani così radicalmente differenti, può curiosamente sembrare ovvio che un particolare minimo come il colore della pelle sia sufficiente per considerare una persona come  appartenente a un'altra razza. ... aggiungo per chiarire meglio, che nessuno dubita che un cocker fulvo e uno nero siano comunque due cocker o chevdue cani di diverso colore siano comunque cani .... la razza è quella umana ... e basta.
Quindi, se per esempio devo parlare di Freud, per essere corretto dirò che era ateo proveniente da una famiglia ebrea praticante. Per Isaac Singer dirò che era di origine polacca e di religione ebrea e praticante. 
Come si può comprendere facilmente, noi ereditiamo una lingua che aveva in sé la certezza che l'ebreo fosse radicalmente diverso dagli altri uomini. Se fai un salto a Brixen al museo vescovile, vai a vedere i piccoli e antichi presepi! Se noi oggi abbiamo, pastorelli e contadini, una volta c'era anche l'ebreo come personaggio, ed era immediatamente riconoscibile dai tratti somatici. Naso a becco, magrissimo, carnagione color mattone, orecchie grandi, che si "frega" le mani, e sguardo rapace ... si era creato un irreale cliché esteriore e quindi ritenevano giusto dedurre che un ebreo era ebreo al di là della religione. Lo dimostra anche la storia dei Maranos, persone di religione ebraica che per salvare la pelle o non morire di fame, si convertirono. Essi erano per l'epoca comunque e sempre ebrei, quindi dotati anche di un determinato carattere che li rendeva comunque e sempre riconoscibili. Il dato non era reale ma non serve una realtà differente se in mente hai uno schema. 
Vedi ... dalla lingua, così come tutt'ora la usiamo, anche se non vogliamo, trapela ancora la traccia di una teoria della tazza. Per questo cerco di dire "di religione ebraica" e non "ebreo"