venerdì 8 gennaio 2021

NICOLA SAMORi': L'ULTIMA CENA

 


Il mio personale rapporto con le opere di Nicola Samorì è sempre stato controverso. Stima assoluta, ma … lo vedevo deragliare costantemente, come Damien Hirst, (che per me è solo un fenomeno commerciale), in direzione dell'annientamento del corpo .., e percepivo il nulla successivo, l'annientamento dell'io come angoscia. Non potevo accettare una mostra nella quale si ripetesse come un ossessione questa visione angosciante.


(un esempio per me parallelo è Giorgio Morandi. Le sue opere … ne vedi due o tre e sei a posto. Se ne vedi una fila, ovvero un'intera mostra, ti trasmettono un disagio notevole nella loro ripetitività e questa diviene l'argomento, l'enigma che lo riguarda. Quando lo feci notare ad un critico questi mi rispose che le bottiglie non erano mai nella medesima posizione … risposta appunto da critico la cui moglie di solito è sempre incinta. Per me era invece evidente che in Giorgio Morandi, nel suo io profondo, ci fosse qualcosa di irrimediabilmente bloccato. Opere di indubbio valore … ma quella ripetitività per me è un sintomo … immaginatevi a fare sempre lo stesso gesto. Se compiuto di rado chi lo vede lo collegherà ad un senso, se accade spesso diviene un tic, qualcosa che sfugge all'io consapevole e che rappresenta un disagio secondo me enorme. L'unico vero cambiamento che mi sembra di aver colto nell'opera di Morandi è la seguente. Sfogliate velocemente un catalogo con le sue opere disposte in ordine cronologico e noterete che da una visione nitida si giunge a qualcosa di ancora definito, ma sempre più direi … annebbiato).


Avrete compreso che questo testo è indubbiamente eretico per i benpensanti (= versione ufficiale dell'interpretazione dell'arte che di fatto è per un 99,98 % marketting ... e vi invito a soppesare attentamente l'aggiunta della t che, anche se sembra, non è casuale), ma posso permettermi anzi devo … ignorare come verrà considerato questo scritto perché mi considero (e ormai non è solo un fattore soggettivo) un artista.


Artista = umano che percepisce qualcosa che non va e sente sgorgare immagini che rappresentano il suo disagio. Successivamente le elabora tecnicamente. Più le elabora … più si allontana dall'idea pura, originaria. Arte totale è quell'idea pura resa nella materia (in forma di parole, note o colore poco importa, basta che sia percepibile ai sensi) che può di conseguenza essere trasmessa ad altri. Suo linguaggio, il simbolo (della razionalità non v'è traccia, fra un attimo spiego). Se un'opera parte dalla negatività colta nell'esistenza, può comunque conquistare una visione positiva che inconsciamente viene elaborata dall'io interiore. L'io interiore se ne frega (è volgare ma ci sta …) dell'io conscio. Io per esempio mi son posto per anni la domanda del significato del racconto “Il cacciatore Gracco” e poi un giorno di giugno, di mattina presto, mentre passeggiavo col cane in un bosco, improvvisamente ecco la soluzione … questo vuol dire che il mio io interiore ha una sua esistenza e delle sue esigenze e solo ogni tanto e di rado, l'io conscio e quello interiore (inconscio è brutto … lo lego a incosciente!) agiscono in consapevole armonia che … l'io interiore può rivelarsi … ed è un momento sublime.


Il critico = Savinio disse … “nessuno ha mai fatto un monumento a un critico” … e mi sembra che la sua massima sia ancora valida. Il critico è un essere razionale, quindi non ha nulla a che spartire con l'artista. Cerca di capire, ma utilizzando il metodo sbagliato che è appunto la razionalità. Potrei usare un'immagine un po' forte … si, oso … il critico è l'avvoltoio che si nutre della carne eterna dell'io interiore dell'artista. Ho già spiegato la situazione nel mio scritto su Harold Bloom. Potrei essere ancora più eretico e preciso … non avvoltoio ma antropofago, cannibale quindi, che si nutre dell'io interiore di un artista poiché non trova il suo … amen.

Meditazione non trascendentale. Un critico parla bene di te … se lo paghi. Un artista fa l'opera perché non può, non è proprio in grado di farne a meno. É sufficiente questa considerazione per farmi rifiutare completamente il ruolo del critico. Già Diderot qualche annetto fa, fece notare che ci sono due visioni dell'arte, quella degli artisti e quella degli altri … per me, secondo me, deve esistere l'organizzatore, l'intervistatore (ovvero colui che fa domande all'artista se questo a voglia di parlare) e nient'altro. Quanto sarebbero più graditi al pubblico cataloghi nei quali il critico tace coi suoi paroloni autoreferenziali e invece si fosse un dialogo e Samorì per esempio esprime assai chiaramente i suoi contenuti, caso raro in un artista del suo livello …

Serve invece lo storico dell'arte o della letteratura ecc. Se il tempo e lo spazio dell'artista son diversi dalla realtà del fruitore, (per esempio un artista fiorentino del cinquecento, osservato da uno statunitense attuale) allora serve raccontare qualcosa. Anche il sociologo potrebbe dire la sua, ma sempre per descrivere il contesto e … basta. Se si agisse così di Duchamp Wahrol ecc non rimarrebbe nemmeno la polvere e l'Arte con la A mjuscola tornerebbe a far capolino nella miseria quotidiana di questa epoca.


Perché ho dato queste definizioni prima di procedere nello scritto … perché ci son sempre due soggettività che si confrontano quando si ragiona. Se io non rivelassi qualcosa di me stesso, sarebbe sleale. Le variabili sono due, io che scrivo e tu che mi leggi, e come tali devono esser messe in gioco. Il mio pensiero può non piacere … liberissimi di pensarlo … e già a questo punto dello scritto, o anche già molto prima … potreste aver deciso che non è il caso di proseguire nella lettura. Il critico si pone invece come divinità che impone perle di saggezza indiscutibile. Un ritorno dell'antico e odiato concetto di autorità … “Lui lo ha detto!”

Aggiungo di me un particolare che può essere utile per quel che intendo dire sull'opera di Samorì … Ho l'impressione che lui viva nella dimensione di un animismo antropologico mentre io vivo in un animismo assoluto.


Animismo antropologico: ogni essere umano ha un'anima … anzi potrebbe averla, Sicuramente ce l'ha Gesù per Samorì e per milioni di persone.


Animismo assoluto: la natura è polvere. Essa prende delle forme perché un'anima da dentro tirne stretta quella polvere-materia. Cnseguenza … ogni oggetto e ancor di più ogni essere vivente, non essendo polvere e avendo una forma … Ha un'anima.


Io sono animista assoluto e la mia vita si presta spesso a situazioni comiche. Per esempio quando è ora di cambiare la macchina per me è una tragedia e con l'ultima vari amici mi hanno fatto le condoglianze. Altro aspetto non secondario. Se ho un oggetto che non mi serve sento la sua sofferenza perché non sta vivendo. Penso allora alle mie conoscenze e se a qualcuno serve glielo dono. Non lo faccio per quelle persone, ma per l'oggetto e la gente fatica a comprenderlo e si sente in debito, cosa che mi imbarazza assai. Vedete … di nuovo non pontifico come fanno i critici, ma offro la mia soggettività che entrerà in collisione (positiva) con l”ultima Cena” di Nicola Samorì e un'opera è una particella, in questo caso consistente, di un io.


Veniamo all'opera. Il personaggi (gli Apostoli) sono sgranati. 




Si sente che son umanissimi esseri fatti di materia (polvere eri e polvere tornerai). La loro friabilità, il loro esistere, è fragile, sembra che basti un colpo di vento per ridurli in quella polvere-materia che diviene tale perché l'anima se n'è andata. Poi osservate Gesù. 




Il corpo è lo straccio in fondo, un residuo che appunto, in quanto materia, diverrà polvere … 



Ma quel che rimane quando il corpo si deteriora è luce! Quindi l'anima in questo solo caso si rende visibile e ciò che visibile è conferma sensoriale per noi umanissimi umani.

Vedete … se studiate Hume dai testi di filosofia, scoprite un ateo. Se invece leggete le sue opere vi rendete conto che lui ci dice che i sensi e la ragione non servono con la Divinità. Con essa serve solo la fede.

Ora … l'opera di Samorì che mi era sembrata per anni bloccata in una ossessione della decomposizione e del nulla che ne consegue, rivela una soluzione. La fede va oltre all'angoscia della morte, la risolve. Non so dire se sia giunto col tempo a questa concezione oppure se ci è arrivato a suon di sana e robusta sofferenza.


Mi è stata offerta varie volte la possibilità di conoscerlo o almeno incontrarlo ma … è in fondo necessario. So che è un solitario e lo sono abbastanza anch'io? Ci tengo invece a vedere, a “vivere” le sue opere, particolarmente ora che ho colto una soluzione “luminosa”. Da sempre l'anima è luce e il fatto che lui abbia ottenuto il suo effetto con una lastra di metallo non mi tange. L'artista può usare qualsiasi cosa. Nemmeno m'interesso di questo. Lui ha le sue tecniche, le sue strategie. A me, a noi, deve interessare il messaggio e in questo caso siamo secondo me, davanti ad una delle opere più valide degli ultimi anni. Il resto della mostra alla fondazione Stelline l'ho trovato men che penoso (ricordare la frase di Savinio ...) … ma basta un'opera per illuminare un viaggio in questo caso a Milano, come basta una pagina di valore per trasformare una giornata uggiosa e “sentire” che forse vale la pena di esistere ...