giovedì 11 agosto 2011

Helga Schneider: "il rogo di Berlino"

Il libro del quale vi parlo ora, contiene il racconto di Helga Schneider1 che fu bambina nella Berlino della seconda guerra mondiale. Di origine austriaca, il padre, dopo che la sua patria fu annessa al reich (minuscolo necessario e voluto...), fu costretto ad indossare la divisa tedesca e fu mandato a combattere.

È un libro eccezionale. Quando si legge il primo capitolo, appena quarantadue righe, si subisce crollo dentro. Io ho chiuso il libro accarezzando la copertina. Ci sono dei destini impressionanti. Non ve lo narro il suo, raccolto in così poche righe senza perdersi in fronzoli e trovate stilistiche. Son appunto solo quarantadue righe. Fatelo per favore voi, e poi provate a resistere alla tentazione di proseguire la lettura.

Il libro è li. Lo guardate, lo guardavo. Sapevo che contiene una versione pesantissima del male. Non avevo il coraggio ma non era giusto nei confronti del suo destino, di un'epoca, non condividere quell'esperienza brutale, quel peso.

Alla fine vince il magnetismo del libro. Di un triste ma giusto color azzurro spento come il cielo in una giornata pesantemente umida e la foto, della porta di Brandeburgo, uno dei simboli di una città per molti versi eccezionale ma che, essendo stata, all'epoca del racconto, la capitale di un impero folle e la sede finale di hitler, subì una distruzione quasi totale. E la sua popolazione, che come si vedrà, spesso era anche apertamente contro quel dittatore, visse, quando riuscì a sopravvivere, in condizioni atroci.

E noi vediamo tutto questo dagli occhi di una donna che ricorda se stessa bambina, e il tutto si innesca da quel brevissimo primo capitolo che le fa sentire la sacralità l'alto compito che è il ricordare.
Si, ricordare nella speranza che non accada più. Ricordare e comprendere.

Questa operazione, ricordare, oggi è diventata sistematica. Vari eventi tragici, in tante nazioni, hanno il loro giorno della memoria, ma secondo me così non funziona.

Ricordare e basta, con quasi l'obbligo morale imposto dalle istituzioni e dalle scuole, ricordare un evento che non è appartenuto a me e nemmeno alle nuove generazioni, secondo me non è il metodo giusto.

Per loro, per tanti miei coetanei, il passato, che sia di sessant'anni fa o di cinquecento, è ugualmente distante e non comprensibile. Gli ultimi testimoni della seconda grande guerra, stanno lasciando la vita e fanno quel che possono, ma non è nelle scuole che devono parlare. Devono esserci per chi desidera sapere e quel desiderio, da contagiare, è il compito della nostra società, della famiglia in particolare, degli amici. Qualsiasi funzione, qualsiasi pensiero se imposti non rendono, e tanto meno per fatti terribili come questi.

Ricordo Boris Pahor che presenta il libro in una cittadina italiana. Pochi giovani. Una ragazzina che colleziona autografi e che adora gli scrittori e per questo attende l'attimo giusto con il foglio e la penna in mano, pronta allo scatto per non lasciarsi sfuggire l'occasione. Il suo libro più noto, “Necropoli”2 contiene tante sfumature di un dramma proiettato non solo nel passato. Certi aspetti del fascismo sul confine di Trieste e dintorni, il tornare nel campo di concentramento come visitatore, dopo esserci stato come prigioniero e cercare di comprendere quelle masse di visitatori e volere disperatamente trovare quella formula che inneschi un saggio e volontario ricordare.

Ma ricordare serve? napoleone fu sconfitto dal freddo e dalla vastità della Russia. hitler fece il medesimo sbaglio.

Quotidianamente pensiamo che mandare in carcere il colpevole conti qualcosa, ma conta fare in modo che capisca. Se non comprende lo rifarà, e in fondo si relega in carcere perché nessuno sa come fare comprendere l'errore e molte volte di errore non si tratta, ma di necessità o di malcostume secondo il quale “chi la fa franca è più bravo di uno onesto”. E incarcerare sembra la soluzione più economica ma è disumana. Solo perché lo può rifare appunto o per bilanciare un male fatto che nulla può far tornare indietro.

Far comprendere.

Vi offro un esempio. Il fatto è vero. Conoscevo un ragazzo di sedici anni ferocemente antisemita. Era fiero di esserlo. Per lui era una prova di coraggio, un andare controcorrente che avrebbe dovuto confermare la sua indipendenza, la sua forza. Sapevo che non aveva mai visto un ebreo e agii di conseguenza. Si andò a Roma. Dopo aver visto qualche monumento gli proposi di mangiare la pizza al taglio in un posto che a me piace molto e dove, gli dissi, mi conoscono tutti. Si mangiò, chiacchierò di calcio con amici romanisti accaniti e quando mi vide parlare con una bella ragazza, venne e lo presentai. Si chiamava Rebecca. Si rese conto subito che era una personcina di un certo livello. Non abitava in Italia ed era appena tornata da un soggiorno dai parenti negli Stati Uniti. Rispose al telefono parlano in una lingua che non comprese ed era affascinato da tutto. Da quella via un po' troppo larga e che avrebbe potuto sembrare una piazza, da quel dialogare familiare, da Rebecca che era veramente una delizia.... e allora lo chiamai, lo portai alla lapide del Ghetto e l'ha letta. Ha letto di quel migliaio e più che furono caricati dal punto esatto, dove ora lui stava ora, e portati ad essere annientati in un campo. Rebecca era andata via. Gli ho detto che era ebrea, e anche quello della pizza al taglio che aveva parlato con lui di calcio, e il pasticciere e tanti altri.

Era ammutolito. Un ebreo non era più semplicemente un nome, ma un essere umano che non era in grado di distinguere dagli altri, tranne quei due o tre che vide, vestiti di nero, col cappello e i cernecchi. Gli mostrai la Sinagoga dall'esterno. Il caso volle che stava passando di Segni, il rabbino, e gli chiesi chi era. Non lo sapeva. Dissi prima che era un pittore romano, poi gli feci notare che era apparso spesso in televisione, che era la personalità di riferimento di quella comunità.

La cura funzionò. I venti “giorni della memoria” che avrebbe dovuto subire dalla nascita all'età adulta, non avrebbero scalfito le sue insensate certezze....

Non ci si spaventi se si deve prendere atto che per ogni essere umano si riveli necessaria una cura su misura. È così e basta. Intruppare popolo o studenti non basta. Questo crea conformismo, ipocrisia. E se tutti agiscono nei confronti di chi hanno vicino quando “annusano” qualche stortura, ecco che certe “malattie” insensate come il razzismo, l'antisemitismo eccetera, si riusciranno ad arginare.

Anche nel libro di Helga Schneider troviamo un ebreo.
Tutti i personaggi di questa storia vera si son rifugiati in una cantina e un giorno arrivano soldati tedeschi, controllano i documenti di tutti e portano via una persona perché ebrea anche se lui nega. Anche la piccola Halga, come quel sedicenne, ma con più innocenza, non aveva saputo distinguere così, con un colpo d'occhio, un ebreo da una persona normale...

Lei, Helga, nel suo ricordare, non ci dice mai se è antisemita o meno. È una bambina. E' una spugna. Lei ascolta e osserva tutto. Avrà una storia personale banale e sgradevole. La madre non c'è più. Di lei non parliamo, (lo scoprirete leggendo), e il padre si innamora di un'altra donna, la sposa e quando parte per il fronte, la lascia con i due bimbi del primo matrimonio. Helga e un fratellino più piccolo che è una peste allo stato puro. La “nuova” madre si affeziona al maschietto e lo coccola e lo vizia fino a farne un piccolo capolavoro di insopportabilità. La bimba, la nostra Helga, che reagisce male al distacco dalla nonna, con la quale era stata fino a quel momento, non sopporta queste differenze smaccatamente gratuite e tramite psicologi consigliati dalla sorella della nuova madre, che ha un incarico presso il ministero della propaganda, ed è assai influente, viene messa prima in una clinica spaventosa dalla quale verrà espulsa perché rifiuta completamente il cibo, e poi verrà portata nella periferia di Berlino, in campagna, in una piccola comunità per bambini caratteriali nella quale si inserisce bene. Questa comunità si chiama Eden. E diventa toccante quando qualche tempo dopo, quando è nella cantina-rifugio con gli altri, osserva il fratellino e pensa che lui dalla vita non ha avuto nulla e lei invece almeno quei giorni al collegio a contatto con la natura e con la possibilità di relazionarsi civilmente. È si. Quando si è al buio totale, brilla anche un cerino. E brilla come l'occhio di un dio....

Verranno a riprenderla e si ritroverà in una Berlino bombardata quotidianamente. Le capita anche, grazie all'influenza sempre della sorella della matrigna, di incontrare hitler. Sono lei e il fratellino insieme ad altri bambini, che vengono ospitati per qualche giorno nel celebre bunker, fino all'incontro che ci farà divorare pagine su pagine per farlo nostro perché, anche se si tratta semplicemente del ricordo di una bambina rielaborato in età adulta, tutto quel che concerne il folle di Braunau, interessa eccome.... chi resiste alla tentazione di conoscere il male! Ne “L'uomo senza qualità”, il mostro si chiama Moosbrugger e anche noi lettori non resistiamo al desiderio di inoltrarci nei meandri della sua mente. Capire il male. E si scoprirà sempre quel che disse la Arendt, ovvero che dietro al male non troveremo altro che banalità, e io aggiungo, spesso una sofferenza tale che si muore dentro e quel che rinasce è una belva che cerca di essere più forte di quel che ha subito.

Torniamo ad Helga. Torniamo a Berlino. no. Anzi, tornateci voi. Ho detto anche troppo.

Solo su un punto desidero soffermami un po'. Ho detto in altri scritti che raccontare e inventare una trama, una situazione, son prove letterarie di livello diverso e ho espresso la mia preferenza per l'invenzione.

Ma c'è raccontare e raccontare. C'è chi, come può esser stato un certe pagine Casanova nella storia della sua vita, ama trasmettere tramite i fatti una immagine di sé, e chi sfronda qualsiasi particolare superfluo e cerca, nel limite dell'umano possibile, di trasmetterci la realtà vissuta. È sempre un atto soggettivo, filtrato e deformato dalla grande e viva massa di tempo che separa il momento dell'esperienza vissuta da quello della scrittura. Nel caso di Helga son passati decenni. Ma è l'agire ch più ci colpisce, che più ci travolge. Si può parlare in questo caso di assenza di stile. Vedete, quando si soffre, quando la realtà è troppo grande, invadente, pesante, cadono gli aggettivi, cade tutto quel che non è necessario nella parola sia scritta che orale. I fatti son rappresentati con frasi ridotte all'osso. Mi fanno ridere coloro, ovviamente i critici e i docenti, quando mi parlano di ermetismo. L'ermetismo vero non è un agire tecnico ben definito e riproducibile da chiunque. Quella è finzione. L'ermetismo è il linguaggio della sofferenza. L'esempio più nitido è Ungaretti con le sue poesie sulla guerra. Montale in confronto è un imitatore. Gioca. Ungaretti parte che è interventista. Vuole la guerra. Ci crede. E poi, la realtà dei fatti in tutta la sua durezza lo annienta. Poche parole riescono a contenere quel che prova. In pittura accade qualcosa di simile. La tavolozza si riduce a pochi colori. Si pensi al Picasso del periodo blu o al periodo fatto di giallo e marrone di Munch. Si semplificano colori e poche linee parlano chiaro. Sorrido delle tendenze minimal attuali che usano il linguaggio della sofferenza per bilanciare vuoti e pieni, rendere atmosfere rarefatte... per la mente, ma che al cuore non arrivano. Fredde e basta.

E ci stupirà questa notizia che apprendiamo già da quel breve, fortissimo primo capitolo. Ci stupirà perché tutto è nitido, palpabile espresso in un unico colore scuro e con due colpi d'ascia secchi, decisi identici a come lei visse la situazione descritta. Anche i suoi stati d'animo sono resi in modo oserei dire perfetto. Accade che li vivi, li soffri, ne sei travolto. E un pugno di parole è tutto quel che hai da dare ma bastano e saranno indimenticabili.

Io personalmente, che spero sempre di riuscire a leggere in un modo superiore che non so identificare, mi son trovato legato al destino della ragazzina che si chiama Erika. Per quel che mi conosco, per la mia fascinazione sempre subita per la femminilità minuta, fragile, penso che se mi fossi trovato adolescente in quella cantina, me ne sarei innamorato e sarei morto per difenderla quando.....quando non ve lo dico. Il finale di quel capitolo che lo racconta, anche stanotte l'ho rivissuto. Lo splendore da incubo di questa personcina fragile, della quale Helga ci dice che era quasi trasparente, lo miseria e la grandiosità di lei che si solleva dal giaciglio e ringrazia tutti e per ultima la madre....
...c'è da perdere le parole. Niente può definire come mi son sentito nel leggere quelle righe, nel vivere quel destino.

Da libri come questi e come per esempio da “Devo raccontare” della Rolnikaite o il diario di Anne Frank o della Hillesum o da “In quelle tenebre” di gitta Sereny, dobbiamo imparare che attuare il male è senza rimedio, dalle piccole azioni alle grandi, fare il male segna e il perdono non conta. È come un peso posto sulle spalle di una persona. Spesso non ce ne rendiamo conto ma dieci grammi oggi e un etto domani e ci ritroviamo con un essere non più umano che crolla, e da certe esperienze, se sono enormi come quelle che questi libri raccontano, tornano degli esseri umani? Ci sembra impossibile crederlo, e invece un passo del libro ce lo rivela. Helga quando scrisse quelle pagine era ormai sposata, in Italia e con un figlio. Quando assisterà a due stupri di ragazzine compagne di disavventura nella “sua” cantina, lei dirà che non ne vorrà mai sapere di uomini, lei che si è salvata per un pelo, solo perché quando il soldato ubriaco l'ha palpata e non ha sentito il seno, l'ha lasciata per sceglierne un'altra più sviluppata.

Ecco che Helga, che ha sulle spalle l'immagine di un padre negativo, dei soldati violenti, di hitler che sapeva essere tremendo, riuscirà a sposarsi, a vivere con un uomo e, per il carattere che nel libro ha espresso, nessuno di noi dubiterà che l'ha amato. E io penso che tutto questo sia opera di una sola persona, del nonno, di Opa, che oltre il resto non è il nonno naturale ma il padre della matrigna. Quell'anziano signore fu gentile, diede affetto anche in una situazione nella quale, Helga ce lo ricorda, l'affetto era l'ultimo dei pensieri. Davanti al terrore, alla fame, alla sete, alla morte, l'affetto sparisce e sembra non necessario, e invece il nonno acquisito, il vecchio Opa, non dimenticò mai di donarlo e quella piccola luce nel buio di un'infanzia assurda, l'ha secondo me salvata, ha reso possibile il suo matrimonio e quel figlio che hanno confermato in lei e in noi la voglia di vivere che comunque per sopravvivere a qualcosa si deve attaccare. Anche la voglia di vivere può essere annientata. Conosco persone di oggi, ne ho conosciute di ieri, che sopravvivevano e basta e non per il tenore di vita scadente. Alcuni erano e sono anche assai benestanti.

Ricordo per esempio quel signore magro amico di mio padre che mi mostrò con un sorriso assurdo, i numeri tatuati sul braccio. Viveva con la moglie. Per un paio d'anni rimase fra la vita e la morte, una volta uscito dal campo di concentramento. Era talmente pelle e ossa che non riusciva più ad assorbire, a trasformare il cibo in energia. Mi raccontò qualcosa del campo. Io ero un bambino e non fui colpito dalle sue parole ma da un altro particolare. Mentre mio padre dialogava con la moglie, lui si alzò e lentamente uscì dalla sua casetta. Se sedette sulla panchina appoggiata al muro della facciata e si godette il sole. Ma non lo fece come avrei potuto fare io, o tu che forse stai leggendo. Era solo un corpo. Un corpo svuotato, senz'anima. Solo le sensazioni epidermiche, animali, gli erano rimaste. Quel sole sul viso e sulle braccia, o il cibo che gustava quasi con estasi tenendo il boccone senza inghiottirlo fino a quando non aveva perso tutto il suo sapore. E l'acqua. La sete che aveva patito la sentii tutta mente seduto al sole, per più di un'ora, con quel sorriso animale stampato in faccia, contemplò il getto trasparente e rumoroso che si gettava nel tronco scavato dove bevevano i cani e le mucche. Io non ero percepito. Quello sforzo per lui non era più possibile. Vedere, sentire, concepire l'altro non esisteva più per lui, che si spendeva tutto, concentrandosi in quello che per me, per noi, è l'aspetto più superficiale delle sensazioni. Era un monumento vivente. Era una pietra viva che non aveva bisogno di raccontare. Il suo esistere così, come lo vidi io bambino, è per me il simbolo del male assoluto che annichilisce, distrugge l'uomo, e lascia un involucro senza più un'identità, un senso.

Solo per la moglie era vivo. Solo per lei, che aggiungeva a quel che mancava al suo uomo col ricordo che aveva di lui, e lo amava intensamente, come si ama solo nei sogni, nelle favole, e lui, ormai inconsapevole di tutto, grumo del paesaggio scolpito dal male, di tutto quell'amore non sentiva più nulla.

E in Helga ho ritrovato l'acqua adorata dall'amico di mio padre. La sua sete e il primo giorno in piscina, davanti a quella massa immensa che la sbalordisce.

Leggere per ricordare. Ma non per ricordare semplicemente l'evento cruento. Leggere invece per diventare consapevoli che è facile, troppo facile fare male. Basta non pensare a quel che si sta facendo, a volte. Fare il male. Caricare anche se solo di un grammo il peso sulle spalle di qualcuno. È questo che dobbiamo temere, che dobbiamo imparare, da Helga, da Gesù, da Maometto....dai ricordi nostri e di altri..........................

Rileggendo questo scritto, che essendo nato come gli altri, di getto, può contenere involontari strafalcioni dati dal fatto che le due dita che uso per battere sulla tastiera non sanno essere veloci quanto il pensiero e in questo inseguimento nascono errori a volte anche divertenti, dicevo, rileggendo, mi sono reso conto che ho consigliato quattro testi che hanno due denominatori comuni.

Primo, il fatto che siano tutti siano editi da Adelphi, non deve asssssolutamente far pensare che io abbia qualche contatto con “loro”. E' un caso, e un caso che deve farci pensare. Come ho più volte ripetuto, secondo me, scegliendo un libro di questa casa editrice abbiamo un buon novanta per cento di probabilità di incappare in qualcosa di saporito. C'è comunque quel dieci per cento che va a toccare tasti che mi danno un fastidio!!! Come se per tutto lo spazio che offre il mio corpo, qualcuno decidesse di dare un colpettino proprio sull'unico sensibilissimo callo, che nella realtà non ho.....

Nessuno è perfetto e, se ricordiamo questa massima elementare e vera, dobbiamo riconoscere che il fatto di pubblicare così tanta “roba” interessante merita comunque, nonostante il mio callettino del dieci per cento, la nostra stima.

Il secondo punto. Premetto che ho citato Boris Pahor, che ho avuto il piacere di conoscere, con l'intenzione di portare certi esempi e gli altri quattro testi che sono appunto della Adelphi, per un'affinità nel modo di arrivare al dunque senza tanti fronzoli. Ho scoperto, appunto rileggendo, che si tratta delle opere di quattro donne. È un caso che va meditato. Quando si ha a che fare con la realtà, loro sono più concrete, più nitide. Levi, con “Se questo è un uomo” e “La tregua”, è grande, ma un po' filosofo... e dopo aver letto i testi di Frank, Hillesum, Rolnikaite e Sereny, ci si renderà conto che mediamente, le donne, se non hanno messo un piedino in quel letamaio che si chiama università, nel ruolo di indocente..., ci si renderà conto dicevo, che le donne, anche quando parlano di grandi principii, di ideali, lo sanno fare in un modo che noi maschietti sentiamo inspiegabilmente, fastidiosamente più concreto. Secondo me è nell'invenzione che l'uomo, che sa vivere con i piedi per terra e la testa fra le nuvole, sa dare il meglio di sé, e con questo non vuol dire che in questo campo sia migliore delle donne. Non c'è gara. Le gare sono stupide, e già solo ricordare la Woolf, la Yourcenar e la Morante, ci basterà per non pensare più ad un primato di fatto inutile. L'uomo che racconta un fatto reale, non riesce a non “piegarlo” ai suoi ideali e all'immagine, ovviamente vera solo nella sua testa, che di sé vuol tramandare. Questo è secondo me un dato di fatto per ora inoppugnabile. Il pane che porta ai figli deve attraversare praterie di simboli e significati e invece per la donna deve fare solo il percorso dal forno a casa. Si badi bene. Queste caratteristiche son valide o sgradevoli a seconda delle situazioni! Abbiamo bisogno sia del pane vero che di quello ideale. Non c'è lotta, non ci deve essere, ma solo coazione verso un senso per la vita, che è secondo me l'estrema forma della bellezza.




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