martedì 31 gennaio 2012

Due azioni possibili che ci renderanno infinitamente migliori

Questa meditazione ha delle ambizioni ….

Creare le condizioni necessarie e sufficienti  perché l’uomo possa iniziare un cammino interiore profondo.

Non intendo fare il mistico o pretendere di posseder e un sapere superiore.

Semplicemente racconterò come sono arrivato ad una certezza:

fino a quando la vita di un vivente dipenderà dalla vita o anche solo dalla sofferenza di un altro essere vivente, non ci sarà possibile cogliere un inizio, una prima briciola della grandiosità dell’esistere.

Esistere con un corpo. Una delle tante forme dell’essere.



Veniamo ai fatti.

Qualche anno fa non riuscii più a liberarmi della consapevolezza che quel che mangio è dovuto a uccisioni: non bastava più non pensarci. Tutto partì da certe macellerie che esponevano teste di maiali o altri pezzi che mi lasciarono una sensazione di assassinio che, ancora senza comprendere perché, sentivo ingiustificato e ingiustificabile. Mi dicevo che non era giusto ma una spiegazione coerente non arrivava.

Pian piano ho smesso di mangiar carne e evitavo di guardare macellerie o stand dei supermercati che esponevano carni crude e anche cotte. Andavo, diretto come se avessi avuto il paraocchi, solo in un settore dove prendevo la carne per Mafalda Tata e Sophie. Il distacco non era quindi completo. Dal cinque settembre del 2011, con la “partenza” dell’ultima,  Sophie, non mi son più nemmeno avvicinato per caso a quelle “zone”. Non era una scelta o una forzatura. Non mi attirava quella merce. Un mese fa ho trovato Lolita e, dopo quattro mesi mi son inoltrato in quella zona che per me aveva smesso di esistere. Non si possono fare certi ragionamenti con un cane. Il suo ruolo nella catena della vita secondo me è consistito nel raggiungere l’ autoconsapevolezza di sè in almeno un esemplare vivente. Per ora  la percentuale maggiore di consapevolezza sembra averla raggiunta l’uomo, ma si tratta di una quantità ancora troppo esigua per poterlo ritenere l’inizio di un altro ciclo. L’essere umano nel giro di poco tempo, con la genetica, potrà superare la legge di Darwin, alla quale invece Mafalda, Tata, Sophie erano sottomesse. Se la nostra selezione  la faremo noi sarà possibile un adattamento più rapido in caso di cambiamento di condizioni di sopravvivenza. Questo livello di consapevolezza è comunque ancora troppo esiguo.

E’ necessario uccidere per sopravvivere? Secondo me non più. Siam fatti di sostanze chimiche, non di cetrioli, pecore e maiali. Per quale motivo le ambiziose gemelle, la scienza e la tecnica, si son spese per fare armamenti e yacht lunghi più delle isole alle quali approdano e non hanno cercato di perfezionare un’alimentazione che ci affrancasse dall’omicidio? E son arrivato al punto che trovo ugualmente efferato accanirsi con un ravanello come con un pollo …..

Dopo qualche mese di completa assenza dal reparto carni, mi sono inoltrato in un corridoio che mi si è rivelato angosciante. Quella carne gridava una gioia di vivere buttata via. Sì, buttata via, perché si poteva agire in modo da non uccidere più.

Mangio carne ormai solo quando sono ospite di qualcuno. Lo faccio perché non mi va di creare problemi. Per ora comunque è fuori  discussione che il coniglio non riesco nemmeno a vederlo. Per me è una creatura uscita direttamente dalle favole. È un sacrilegio uccidere una favola, cioè l’infanzia.

Sono già consapevole di non riuscire più ad addentare una fiorentina. Quel mordere e masticare mi sembra di un primitivo assordante e non mi ci riconosco più, nemmeno con distrazione.

Di recente per caso ho avuto a che fare con una bistecchina anonima sepolta da tante verdure e la fatica è stata enorme. Anche la verdura mi sembrava contaminata. Sapore di assassinio, di morte, di strage evitabile.

La scienza e la tecnica se non son guidate da una morale, son pericolose e stupide. Faranno del bene solo involontariamente, per caso. E infatti l’umanità ha speso più in bombe che in strategie per vivere meglio e vivere meglio per me non equivale a progettare il telecomando per non sollevare più un sedere sempre più piatto (il vostro, io ho rinnegato la tivù da anni) dalla poltrona che ci fagociterà, ma …..

Ma serve una morale. NON UCCIDERE è un comandamento che va oltre allo scontro fra esseri umani. NON UCCIDERE LA VITA …. Questo è il senso completo a cui approdare. E si pensi che quel comandamento a suo tempo, quando fu coniato voleva dire “non uccidere uno dei tuoi per nessun motivo” : “uno” era l’ebreo e “tuoi” il suo popolo. Siamo cresciuti. Ora NON UCCIDERE vale per tutti gli esseri umani. Il passo successivo consiste nel decidersi a dire “NON UCCIDERE O FAR SOFFRIRE NULLA  DI VIVENTE”. Sì, nemmeno far soffrire, poiché la sofferenza è una morte parziale che a volte si esaurisce nel tempo, a volte ti cambia completamente e ti rende un morto con un corpo vivo; esempio quest’ultimo vivo e indimenticabile nei deportati che si son salvati da Mao, da Stalin, da Hitler (li ho messi in ordine in relazione ai morti prodotti e si ricordi che l’imperdonabile Hitler è solo terzo in questa tragedia che non si esaurisce con quei nomi).

Si uccide anche per altri motivi. Proprio la politica del LEBENSRAUM voluta da Hitler ce la rivela. Iniziò con ebrei, zingari, malati e gay, ma nella sua graduatoria dopo toccava agli slavi e poi ai latini. Non si pensi che la sua mania di far posto a questi ipotetici ariani, si sarebbe esaurita con l’eliminazione di quelle prime quattro categorie! Slavi, balcanici tutti, e poi francesi, italiani, spagnoli …. Solo agli inglesi era riconosciuta pari dignità che,  grazie al cielo, rifiutarono anche se con qualche tentennamento.

Il problema ce lo spiega  una legge di natura. Quando una specie è sovrappopolata tenderà ad espandersi. Lo farà prima con le buone, poi togliendo energia ad altri viventi fino a soccombere o adattarsi come popolazione quando lo spazio colonizzabile sarà esaurito.

Ora: col periodo coloniale il mondo era stato diviso tutto. Chi voleva espandersi poteva farlo solo a spese di qualcun altro. Ma, con una crescita demografica fortissima, ogni stato sentiva bisogno di territori, ma disabitati ….

Ecco quindi quel che accadde. Conquistare territori e “svuotarli”…. O deportazione o morte, ma svuotare per la propria gente. Dove avrebbe potuto mettere le sue eccedenze di popolazione la Gran Bretagna se non avesse avuto come valvola di sfogo prima la colonizzazione degli Stati Uniti e poi …. il resto del mondo?

Ora immaginate una superpotenza come la Germania dei primi del novecento. Lo sentite il suo bisogno di espandersi? E’ durato due guerre e una marea di vittime. Se pensate che l’Olocausto fosse solo una questione ebraica, pagherete in futuro questa distrazione.

Non penso che sia finita. È questione di comprendere che il problema macroscopico era questo e che non è finito. Un popolo che sente l’esigenza di espandersi per motivi di sovrappopolazione, progetterà motivi validi solo per se stesso e deciderà del non valore di chi deve usurpare dello spazio e ora anche della vita. Se ragioniamo in questo modo le “scuse” per annientare gli indigeni americani si fanno chiare e non si esauriscono in quanto è stato detto. Un indiano non era solo un infedele … ,si dibatteva, anche se aveva un’anima, perché si aveva bisogno di giustificare il bisogno di spazio. O adattarsi o andarsene. Meglio l’ultima, lo sappiamo.

Son due quindi gli aspetti che ci schiacciano a terra col loro peso: il fatto di vivere della morte di altra vita e il fatto di non riuscire a controllare la crescita demografica. Penso di avere dimostrato che per ambedue queste piaghe, si dispongono degli strumenti scientifici e intellettuali per emanciparsi e vi garantisco che vivere senza morti sulla coscienza, ci farà sentire più angeli e, fra sentirlo e diventarlo, il passo sarà breve.

…. Ma non basta il pensiero del singolo per ottenere questi doni. Un diamante se lo getti in mare si perde ed è come se non esistesse. È l’umanità tutta che deve tendere a questi scopi, che deve sentirli come esigenze fondamentali per migliorare profondamente. E una volta realizzati forse si comprenderà che questa fase di passaggio nella quale si deve indossare un corpo, è una delle tante versioni del paradiso.

domenica 22 gennaio 2012

Tuavii di Tiavea: Papalagi

Esistono libri che si fanno interessanti al primo impatto,  quando scopriamo, per esempio da un’amico da quale nuovo punto di vista viene trattato un argomento.

“Papalagi” è uno di questi casi. E’ pubblicato da “Stampa Alternativa”. Lo incontrai la prima volta qualche anno fa. Era nelle edizioni “Mille lire”, in carta morbida. Un libretto sottilissimo e floscio che sembrava fatto con la carta di giornale. Lo presi perché qualcuno mi aveva accennato l’argomento. I Papalagi sono gli europei. Chi scrive è Tuavii, signore di Tiavea, villaggio dell’isola Upolu  che si trova nel gruppo di isole dette Samoa. Siamo nel 1920 quando Erich Scheurmann decide, contro la volontà di Tuavii, di dare alle stampe, inizialmente in Germania, questo testo. Non era terminato. Ogni capitolo era un abbozzo che serviva al suo autore per tenere discorsi alla sua gente. Ringrazio Scheurmann per la decisione.

Con questo testo, forse per la prima volta, un pubblico di non addetti ai lavori ha potuto scoprire cosa pensa un indigeno della “civilizzata” Europa.

Il vocavolo indigeno è strano e di applicazione ambigua. Tutti siamo indigeni di un luogo e questo è un significato. Proust era indigeno di Parigi per intenderci. Questo significato si attorciglia comunque con un altro che vuol dire dell’altro. L’indigeno è colui che vive in situazioni arretrate. Di solito non si intende dal punto di vista economico, m,a di civiltà. Ecco che son quindi indigeni quelli delle Samoa come quelli dell’Amazzonia eccetera.

Questo indigeno delle Samoa (così facendo ho inglobato ambedue i significati e risolto un’ambiguità linguistica) questo indigeno, dicevo, desiderò visitare l’Europa e fu accontentato. Vide Gran Bretagna, Francia, Germania e Italia (di questi stati ho la certezza).

Quando tornò alla sua capanna, decise di scrivere quegli appunti per darsi una linea precisa nei dialoghi con la sua gente. Suddivise questi brevi capitoli per argomenti e poi cercò, impresa quasi impossibile, di spiegare un mondo profondamente diverso, a gente che non l’aveva mai visto.

E’ divertente in vari casi cercare di comprendere cosa sta descrivendo e per noi europei del 2012 spesso la situazione non è semplice poiché in un secolo di cose ne son cambiate. Quando descrive il cinematografo, la presenza del pianoforte ci pone fuori strada, pensiamo di aver compreso male e che si tratta di un teatro. Accade che dobbiamo renderci conto che era sì cinema, ma muto.

Eè un po’ difficile all’inizio quando descrive l’abbigliamento e per semplificare vi invito ad immaginare un uomo in giacca gilet e pantaloni. È divertente la digressione sul gilet poiché notò che che cercava molte femmine lo si riconosceva per questo indumento colorato, unica licenza che i maschi europei si prendevano in un abbigliamento di solito sempre scuro. All’epoca, quando lui venne “da noi” le donne avevano ancora l’uso di mettere sottogonne e busti irrigiditi con ossa di balena.

E’ ovvio che in questo senso possiamo distanziarci da quella gente ed ambire a considerarci “europei di oggi”, ma quando questo testo inizia a diventare diciamo filosofico, “sentiamo” profondamente, prima con divertimento e poi con stizza, che Tuiavii ha perfettamente ragione.

Ha ragione anche per chi non crede in dio, questo va sottolineato, e in più non si può far finta di non aver compreso la lezione come si può fare, e con sacrosanta ragione, coi testi di tanti filosofi che han scritto in filoso fese, lingua ridicola adatta solo per gli addetti ai lavori. Fortunatamente si può vivere e bene senza aver letto certi libri (Hegel tanto per dirne uno)….E’ un poco la situazione ridicola che si sperimenta quando il primario ci parla in medichese e noi lo guardiamo allucinati. A lui, sappia telo, non gliene frega niente se non capite. Dall’alto ci cala le sue perle di saggezza, e sappiamo benissimo che non ci salva nemmeno prendere in mano i fogli che ha scritto poiché son quasi sempre con una calligrafia incomprensibile. Ovviamente nel caso del medico si deve trovare una soluzione. In quelle parole giace la nostra malattia e bisogna assolutamente capire, ma un testo di filosofia! Se lo scrivono in filoso fese, io, laureato anche in quella materia, vi invito a metterlo in bagno e ad utilizzarlo nei casi d’emergenza …

Se vogliono parlare fra di loro e basta, i filosofi, che facciano pure. La vita si volge nella vita, non nell’operazione inutile di criptare in un linguaggio inutilmente tecnico delle verità che spesso, quando si son capite, non valevano la spesa ….

Questo libretto invece, come capitò al caro Socrate, è terribilmente leggibile. Non ci sono scuse. Comprenderemo e non abbiamo scappatoie che ci permettano di negarlo. Il linguaggio è semplice. Il messaggio è forte.

Esito. Ci si sente ridicoli. Le cose, il pensiero, il lavoro, nella sua ottica vengono distrutte.

Posso dire di aver fatto il possibile da tantissimo tempo, per vivere secondo il suo stile. Per chi non ci crede ricordo che anni fa vinsi e rifiutai (una storia italianissima e lunga) un premio letterario e la poesia che piacque di più si intitolava “odio le scarpe”.

Unico aspetto che non condivido, e ora cercherò di spiegare perché, è il rapporto con la parola scritta. Condivido il suo ridicolizzare la nostra (vostra…) fame d’informazione e il bisogno di sapere tutto dai giornali e anche dagli altri mass media. Questo blog ne è spesso la prova, poiché in vari scritti me la prendo con un’informazione superficiale e volontariamente inesatta (se accade inconsapevolmente, e so che accade, la situazione si fa ancor più grave).

Per me leggere è importante nell’ambito della letteratura.

La mia battaglia continua consiste nel dimostrare che attualmente, ed esattamente dal primo dopoguerra con troppa forza, si confonde l’intellettuale con l’artista. L’intellettuale è solo pensiero e lo condanno esattamente come fa Tiavii. L’artista è invece secondo me l’unico tentativo della nostra epoca di mantenere un contatto fra ciò che profondamente “sentiamo” e quel che ci accade. Quel che “sentiamo” non parte dalla mente ma ad essa arriva.

Vi riporto un pezzo dal libretto per chiarire leidee:

“Riesce solo con difficoltà a non pensare e a vivere con tutte le sue membra insieme. Spesso vive solo con la testa, mentre tutti i suoi sensi sono profondamente addormentati ……… E’ una specie di ubriacatura dei suoi pensieri. Quando il sole splende bene nel cielo, pensa subito: “come splende bene!”. E sta sempre lì a pensare come splende bene. Ciò è sbagliato. Sbagliatissimo. Folle. Perché quando splende è meglio non pensare affatto. Un abitante delle Samoa intelligente distende le sue membra alla calda luce e non sta a pensare a niente. Accoglie in sé il sole non solo con la testa, ma anche con le mani, i piedi, le gambe, la pancia, con tutte le membra. Lascia che la pelle e le membra pensino da sole. E queste da parte loro pensano, anche se in modo diverso dalla testa …… E’ per lo più un uomo con i sensi che vivono in inimicizia con lo spirito: una persona che è divisa in due parti.”

Ecco su cosa concordo. Il corpo pensa e spesso è grazie a lui che ci salviamo da situazioni impossibili. Se per esempio si cercano risposte a domande che razionalmente non ne hanno, si potrebbe portare, per mezzo della mente, il nostro io totale alla rovina. Anni fa in un racconto immaginai una persona che era arrivata a decidere il suicidio. Si mise sulle rotaie, il treno passò ma non ci fu urto. Non lui, perché noi purtroppo ormai ci identifichiamo solo con la mente, ma il corpo si era mosso e aveva rifiutato quella scelta. Il protagonista di quel racconto decise di lasciar fare al corpo e riscoprì la vita….

Per me le opere artistiche, quelle vere, quelle che appunto trasformano in linguaggio, disegno e colore, musica ecc, un messaggio che ci viene da dentro, sono diverse dall’altra carta stampata. Quella è “roba” vera. Profondamente nostra, per il semplice fatto che, come ci ricorda con quel bell’esempio del sole Tuiavii, noi non pensiamo solo con la mente.

È poi strepitosa la sua interpretazione delle opere d’arte. Lui vide sculture di nudo, paesaggi dipinti eccetera e identificò i musei come templi della nostalgia di quella vita definitivamente perduta, la vita di Tuavii, delle Samoa, dove le ragazze girano seminude, la natura entra in casa e l’uomo entra nella natura senza pretendere di cambiarla.

E ora veniamo ad un cavillo di questo grande uomo che mette un poco in ginocchio le velleità della fisica, sia quella di quando lui visitò l’Europa che quella di oggi:

“Questo ficcare il naso e frugare in tutte le cose è una brama volgare e spregevole dell’uomo. Prende la scolopendra, vi ficca una piccola lancia, le strappa una gamba. Che aspetto ha una zampa divisa dal suo corpo? Come era fissata al corpo? Rompe la zampa per misurarne lo spessore. È importante, è essenziale. Stacca un pezzetto di carne grande quanto un granello di sabbia e lo mette sotto un lungo tubo che ha un potere misterioso e fa vedere molto meglio. Con quest’occhio grande e potente guarda dentro ogni cosa, che siano lacrime, un brandello di pelle, un capello, assolutamente tutto. Taglia tutte queste cose finché non è più possibile romperle e tagliarle. Anche se questo punto è senz’altro il più piccolo, è anche il più piccolo il più essenziale di tutti, perché è l’accesso alla conoscenza suprema, quella che possiede solo il Grande Spirito. Questo accesso è vietato anche al Papalagi, e i suoi migliori occhi magici non ci hanno ancora guardato dentro. “

La caccia attuale all’infinitamente piccolo, ai neutrini, bosoni eccetera, ha in Tiuavii un senso preciso; si tratta del limite ultimo, fra la conoscenza concessa all’uomo e quella che appartiene alla divinità. Sorprendentemente vari fisici attuali, la pensano proprio così. Non voglio dire con questa affermazione che approvo la teoria che Tuiavii propone. Secondo me, lo dico barbaramente, la materia non esiste se non come energia talmente concentrata da esser diventata percepibile ai sensi. E l’energia altro non è che una possibilità di fare.  Ridicolo? Sarà, ma Penrose, ha “corretto” due mesi fa la teoria del Big Bang in un modo che proposi in un mio scritto intitolato “Echte Blumen” (ed. Mic Studio) uscito in Germania , esattamente a Furth, nel 2007… Sarà sicuramente un  caso ….. Io son partito da un dato che trovavo incoerente. Definire infinito l universo e un big bang unico equivale a far rientrare l’antropocentrismo nella fisica. Il big bang si fa centro di un infinito? È umano. Abbiam perso la centralità con Kepler e una parte di noi stessi con la scoperta del subconscio ed ecco che, teneramente, ci riposizioniamo al cento: La fisica, come tutte le scienze è prima di tutto espressione di una filosofia, di un’estetica, solo così possiamo spiegare la fissazione durata secoli a ritenere il cerchio l’unica traiettoria dei pianeti. L’ellisse è meno bella …..

Vedete quanto pensiero semplice e semplicemente profondo in Tuiavii?

A me non badate, nonostante i miei sforzi, sono ancora troppo europeo per poter essere considerato sano!

venerdì 6 gennaio 2012

1 gennaio 2012 (verso il tramonto)


PRIMO GENNAIO 2012



Le parole rotte in bocca



sgranate dall'urto



come un rosario distrutto



di semi di rosa



e nebbia nel cuore



che batte



come un orologio rotto







è vero Tonino,



anni mangiati di gusto



e sei cresciuto inconsapevole



di essere poeta.







…..........E ora il padre si è fermato

improvviso

e raccoglie il corpo nel letto

ultimo.







Tu lo guardi e tremi dentro

perché non sai che fare

e chiedi

“Papà, come posso essere utile....”



e il padre disse



“adesso taci e impara a morire”.







E io ora



in questo gennaio



di freddo e sole



ti osservo disorientato.







Non hai più voce,



ti stai allontanando



e penso



“Tonino, cosa posso fare....”





e nel silenzio

ha compreso,

ha alzato lo sguardo

più vero che ho vissuto

e ha risposto

con la mente



“è l'ultima lezione...”











E' andata bene.



Lezione rimandata.

giovedì 5 gennaio 2012

Baricco

Spesso mi hanno domandato perché non parlo mai di Baricco. Quasi mai è invece la risposta corretta. Di “Novecento” ho detto cose buone. È un buon teatro da leggere. Sensato, valido. So che ne hanno poi fatto una versione teatrale e anche una cinematografica ma ad esse non mi sono interessato per il seguente motivo: solo due volte mi è capitato di “vedere” un film che fosse all'altezza dell'opera letteraria da cui era tratto e ho fatto di conseguenza qualche ragionamento.... Si tratta di “La morte a Venezia” di Mann che secondo il mio personale parere è di molto migliore del libro e ammiro in Visconti l'essersi cimentato solo quando effettivamente si è sentito all'altezza del compito, e Solaris di Tarkovskj. Quest'ultimo caso è assai particolare. Libro e film sono molto diversi. Tarkovskj si è “nutrito” della genialità di Lem e poi ha prodotto qualcosa di notevolissimo e altamente personale. Due capolavori simili e diversi. Per il resto penso che, quando qualcuno si cimenti nel fare la versione filmica di un testo letterario, compia un errore grossolano. Un'idea che esce dalla mente in forma di parole è una cosa, un'idea che nasce in forma di immagini è completamente diversa. Esiste un passaggio nel quale si perde molto, troppo. Mi spiego. Penso e scrivo e poi arriva qualcuno che prende lo scritto e lo trasforma in immagini. Abbiamo tre passaggi: pensiero, scrittura e immagine. Ho la sensazione che ad ogni passaggio si perda qualcosa. Già per me è dura accettare che per ora nessun mio scritto ha saputo rendere non più di un'ombra di quel che ho pensato. Ed è presto detto perché accade. Le parole, tutte le parole che noi usiamo, nacquero per la vita pratica. I termini astratti son nati dal “misero” adattamento di vocaboli che avevano significati palpabili. Anima per esempio non per caso ha la radice in comune con l'anemometro, lo strumento che misura la velocità del vento. Ascoltiamo ora Borges quando racconta delle difficoltà che dovette affrontare Wulfila per affrontare una storica traduzione....1

“All'origine delle letterature germaniche c'è il vescovo dei Goti Ulfila (Wulfila, Lupacchiotto), nato nel 311 e morto verso il 383. Il padre era goto, la madre una cristiana prigioniera; oltre alla lingua gotica Wulfila padroneggiava latino e greco. …..diede inizio, a nord del Danubio, alla conversione dei goti.....l'opera maggiore di Wulfila fu la traduzione visigotica della Bibbia.... prima di iniziare la traduzione, dovette creare l'alfabeto in cui l'avrebbe scritta.....i germani possedevano l'alfabeto runico, che aveva poco più di venti segni, adatti per essere incisi su legno e metallo, e legati, nell'immaginario popolare, alle stregonerie pagane. Wulfila prese diciotto lettere dall'alfabeto greco,

cinque dal runico, una dal latino e un'altra non si sa da dove, che aveva valore di Q, e fabbricò così la scrittura che venne chiamata ulfilana o anche maeso-gotica....riprodurre quella letteratura, a volte complessa e astrusa, in un dialetto di guerrieri e di pastori, è un'impresa che sembrerebbe a priori impossibile. Wulfila la compì con decisione e a volte con acume. Com'è naturale, fece abbondante uso di barbarismi e neologismi; dovette incivilire la lingua. La sua lettura ci riserva delle sorprese. Nel Vangelo di Marco (8:36) sta scritto: “Che gioverà all'uomo acquistare il mondo intero se si rovina l'anima?” Wulfila traduce mondo (cosmos nell'originale) con “bella casa”. Qualche secolo dopo, gli anglosassoni avrebbero tradotto “mondo” con “werehald” - età dell'uomo, che contrappone il tempo umano all'infinita durata della divinità. I concetti di cosmo e di mondo erano troppo astratti per i semplici germanici.”



Fine della citazione. Aggiungo una considerazione che conferma sempre più l'origine concreta dei vocaboli: Barbaro....barbar....stava per popolo che balbetta, tartaglia, del quale non si capisce assolutamente niente.



Ebbene.... anche se noi abbiamo dimenticato l'origine delle parole è comunque evidente che abbiamo adattato qualcosa di pre esistente per riuscire ad esprimerci in modo sempre più sottile e preciso. La precisione totale però non può accadere, mi sembra evidente, se non in un modo trasversale al linguaggio. Faccio un esempio. Conosco la vasca da bagno ma non la barca (sono per esempio un pulitissimo altoatesino neolitico) e mi ritrovo a fuggire dalle coste liguri con gente arrabbiata alle calcagna. Adatto la vasca da bagno a barca e mi avvio. Con un po' di sedere (versione edulcorata ma avete capito), potrei arrivare anche in Africa, ma è molto più facile che il viaggio diventi verticale, ovvero che si affondi. Intendo dire che si intraprende un viaggio, con la lingua, attuato con mezzi di fortuna, adattati alla meglio. Potrebbe anche accadere che l'altoatesino igienista arrivi da un popolo di zozzoni felici ed ecco che per loro la vasca diventerà solo e definitivamente un natante.... e così si dimenticherà che l'anima deriva dal vento eccetera eccetera eccetera.



Io scrivo, anzi trascrivo pensieri, per comunicarli prima di tutto al mio io che ama ritrovarli (si sa che la memoria non è affidabilissima...). Accade che uso materiale riciclato del quale non ricordo bene il valore originario. Mi sembra ovvio che del mio pensiero si perderà qualcosa. Se io uso indiscriminatamente di tutto per costruirmi una casa, otterrò indubbiamente una casa, ma sicuramente diversa dalla mia idea progettuale. Perché uso per esempio ossa e pelli? Perché non ho altro oppure non sono ancora abbastanza sveglio per valutare col ragionamento...



Esiste però un linguaggio che funziona e sembra essere in grado di contenere significati immensi. Si tratta per esempio della letteratura, della pittura, del grande cinema eccetera. Quel che accade è che ci si distanzia dalle parole (prendendo la letteratura come esempio) e si crea con esse una massa che se analizzata parola per parola apparirà indistinta, poco chiara, non troppo ragionevole, ma se “bevuta d'un fiato” offre un'immagine inaspettata.



Tutto questo polpettone di parole per cercare di spiegarvi perché secondo me tre passaggi, pensiero-scrittura-film, son troppi. Si “sente” ora quel che intendevo dire? Il pensiero ad ogni passaggio subisce un adattamento che richiede una perdita di potenza, un po' come il fiume che ad ogni ansa, anche se di poco, comunque rallenta.



Se quindi Baricco ha scritto “Novecento”, io leggo “Novecento” e non son troppo attirato dall'idea di vederlo a teatro o al cinema. Se scopro che, come un certo Shakesperare, oppure Moliere o Fellini, o Antonioni, solo per nominare qualche persona saggia nel prodotto ma anche nell'agire per crearlo, dicevo, se scopro che queste persone hanno messo il pensiero in mezzo ad un gruppo di collaboratori, che siano attori, sceneggiatori poco importa, e che l'idea è nata per essere vista, allora mi avvio con interesse alle sale addette a mostrare...



Dimenticavo: si ritiene che il dio degli ebrei, e quindi anche quello dei Cristiani e dell'Islam, abbia creato nominando. Dicendo zebra era sorta dal nulla quella bestiolina a strisce eccetera. Si è immaginata quindi una lingua perfetta, venuta da dio, capace quindi di esprimere tutto con chiarezza poiché la divinità non può essere altro che chiara e se non capiamo, come accadeva quasi sempre con gli oracoli, il limite è ovviamente nostro. La lingua invece di perfetto non ha nulla e in più, secondo me, il nostro io più antico è pure asessuato. Esso agisce in relazione alla sottomissione dell'altro e questo lo si ottiene con la potenza. Se ho una sola razione di cibo e quella mi salva la vita, il fatto che di fronte io abbia una femmina o un maschio non mi condiziona. Prima salvo la pelle poi affronterò altre questioni. Penso di aver reso l'idea.



Torniamo a Baricco. “Novecento” secondo me è nato dalla sola mente del suo autore e da scritto, forse immaginato sulla scena è poi diventato per destino forse anche cercato, brano teatrale. Per questo preferisco leggerlo.



Ma oltre a “Novecento” mi rapporto assai male con la sua opera. Mi ha bloccato forse irrimediabilmente la lettura di “Seta”. Si tratta di un racconto pubblicato singolarmente e per fargli raggiungere il centinaio di pagine hanno “tirato” nei caratteri e poche sono le frasi per pagina.

Ma non dilunghiamoci sui gretti trucchi degli editori per guadagnare.



Il racconto è elegantissimo e ha immagini di effetto sorprendente ma.... ma è costruito. Sento che dietro non c'è l'io dell'autore o della sua epoca. Esiste un calcolo preciso. “io so fare e ora scrivo qualcosa di elegante”. È come vedere un abito chic su un manichino o su una persona. Nel racconto di Baricco, Baricco non c'è....



Un uomo deve andare una volta all'anno dalla Francia in Giappone per recuperare uova di bachi da seta. Siamo nella metà dell'ottocento. Quindi il paese del sol levante si fa misterioso esattamente come fu la Transilvania per l'autore di Dracula. Pochi tuttora conoscono il Giappone ma molti lo immaginano, e quando si immagina, come il folle di “Amarcord”, il luogo esotico offre le visioni sensuali che desideriamo, se siamo abituati a non volare alto con la somma di cuore e mente.....



Nel libro di Baricco accade proprio questo. Bella è la scena della tazza da tè. Lei sembra dormire appoggiata al suo anziano e potentissimo amante giapponese, ma poi prende la tazza del francese e beve dal punto dove lui ha posato le labbra. Bello ma irreale. L'amante anziano potente e ricco è li e vede. Se fino a quel momento è stato potente saggio eccetera, come mai improvvisamente diventa un “pollo?”. E poi accade pure che il francese ri prende la tazza, cerca il punto dove ha bevuto lei e ri beve. Non va. Presuppone un giapponese contemporaneamente geniale e scemo.



Bella è l'idea della voliera. Scopriamo che l'uomo giapponese regala alla donna uccelli rarissimi come premio alla sua fedeltà. Quando il francese torna per la seconda volta in Giappone e raggiunge il paesino dove abita il ricco amante della giovane inquietante, viene accolto da un volo multicolore. Lei sa che è arrivato ed esprime così la sua felicità dichiarando anche di voler essere infedele al vecchio poiché appunto quei volatili rappresentavano la fedeltà. Ci sta ed è piacevole, ma quando il francese torna a casa e progetta una voliera e la moglie chiede perché vuole farla, mi “cascano le braccia”. Chiunque anche gli emiliofedisti più incalliti, avevano capito cosa significava la voliera. Ma era proprio necessario rendere concreto, diretto un messaggio già compreso? Questo rinforzo un poco pavloviano mi fa supporre che per Baricco i suoi lettori son considerati tutti come quel giapponese facoltoso, intelligenti si, ma un po' di coccio, quindi ci da una mano. Il problema è che la dimensione sognante, impalpabile che aveva creato, si è fatta dura, percepibile ai sensi più antichi, al palato, al naso, e anche alle dita.



E poi, la lettera che la giapponese invia al francese! È evidente, anzi evidentissimo che Baricco, davanti alla sessualità ha perso il controllo che prima aveva in modo almeno decente, sul materiale che stava costruendo. Si tratta di quel che un maschio desidera che una donna gli faccia e non certo di quel che una donna innamorata desidererebbe fare all'uomo che ha tanto desiderato ma col quale non ha mai potuto concludere un rapporto sia sentimentale che carnale. L'equazione è sbagliata e rasenta il ridicolo. Ci presenta una situazione che parte dal cuore e approda necessariamente ma non solamente, alla fisicità dell'atto sessuale. Baricco ha tolto l'aura del sentimento e si è lasciato andare....ai suoi desideri. Non è l'unico, anche Cohelo regolarmente fa così, ma Baricco aspira ad un livello meno triviale di questo brasiliano che da discografico si è riciclato mistico letterato del sesso fallendo miseramente. Baricco ci offre un'apparenza di cultura e di eleganza, ma ha il difetto, secondo me, che gioca solo con l'intelligenza e mai con la sua vera sensibilità. Per questo che non riesco più a “prendere” un suo libro. Non mi attira, lo trovo finto. C'è il manichino, non l'uomo, sotto quell'abito di parole eleganti....eleganza poi che sembra tale, solo se vista da lontano.



È in più sorprendente che l'unica giapponese presente in Francia all'epoca sia ovviamente una raffinata mignotta......



Amen



1Da: “Brume, Dei, Eroi” di Borges e Maria Esther Vazquez – ed Franco Maria Ricci – marzo 1973 – Parma da pagina 39 a seguire.